Le sabbie del tempo nel deserto dell’Uzbekistan

by azione azione
17 Novembre 2025

Dal preoccupante spettacolo del Lago d’Aral alle rovine dell’Anello d’Oro dell’antica Corasmia, un viaggio oltre Khiva nella terra del Karakalpakstan

«Kizilkum», «sabbie rosse»: dal deserto che attraversa parte di Uzbekistan, Kazakistan e Turkmenistan ci si aspetterebbe una distesa monocolore. Invece la strada che parte da Khiva, uno degli ultimi avamposti uzbeki, rivela ai lati tracce di verde nemmeno troppo rare. Piantagioni di cotone, spiega il tassista: un’industria iniziata dai sovietici, che hanno convogliato l’acqua dei fiumi Amu Darya e Syr Darya in (malfatti) canali per dare vita a un nuovo, fiorente commercio.

Il Karakalpakstan, terra solitaria e sospesa, serba le tracce di vecchie rivolte e rivendicazioni di indipendenza

Avanziamo spediti dal centro della cittadella medievale inoltrandoci verso Nord. Sorpassiamo mandrie di Chevrolet bianche, l’unico marchio che si vede nel Paese a causa dei bassi costi di produzione e di rivendita; una rapida sosta pranzo per mangiare la carne che cuoce in un pentolone all’aperto in un parcheggio, osservando gli enormi stinchi che i camerieri servono ai tavoli, e in breve ci ritroviamo nello Stato del Karakalpakstan. Lo annuncia, a caratteri cubitali di colore verde, una struttura di ferro sotto cui passare in macchina.

Il Karakalpakstan è una delle zone più remote e povere dell’Uzbekistan, una repubblica autonoma che ha alle spalle una serie di difficili vicissitudini, di rivolte e di manifestazioni per ottenere l’indipendenza. Qui, il cotone inizia a lasciare il posto a sporadici frutteti, le basse piante che in autunno si rivestono di morbidi batuffoli sono sostituite da cespugli e arbusti che punteggiano il deserto. Questa regione non richiama molti turisti: lo si capisce subito dai negozi sabbiosi da cui non esce nessuno, da quel singolo, solitario frigorifero polveroso che staziona all’esterno di un supermercato, attirando gli invisibili clienti con la promessa di una Coca-Cola gelata, dalle poche persone che camminano sul bordo della strada, dai chilometri percorsi guardando scorrere dal finestrino un paesaggio ripetitivo. Un territorio non di confine ma che sembra già non più uzbeko, con una lingua, il karakalpako, che è infatti più simile a quella del vicino Kazakistan.

Si potrebbe pensare che non abbia senso venire qui, oltrepassare quel portale, quel casello poco controllato. E infatti sono molti i turisti per i quali non vale la pena spingersi fino alle Colonne d’Ercole dell’Asia Centrale. Eppure, gli altri, quelli che vogliono esplorare un angolo fuori dagli itinerari più battuti, possono scegliere tra ben tre motivi per cui intraprendere questo viaggio.

Il Louvre dell’Uzbekistan

Il primo è visitare nel centro urbano di Nukus una roccaforte creativa, un inaspettato baluardo che si erge per difendere l’arte dalle sabbie del deserto: il museo creato da Igor Savitsky. Artista ed etnografo russo, si propose di salvare le opere avanguardiste dei suoi connazionali che il regime stava mettendo al bando, distruggendo o bruciando. Sotto il comunismo, qualsiasi espressione che uscisse dal tracciato e deviasse dal rigore non era permessa; scultura, religione, letteratura, ogni branca della cultura doveva essere uniforme, coesa, non c’era spazio per la fantasia e l’espressione personale. A metà tra uno 007 e un paladino dell’arte, Savitsky dal 1960 nascose oltre 90mila tele raccolte dagli autori o dalle loro famiglie – talvolta non consapevoli di avere un quadro di pregio in soffitta – fondando quello che oggi viene chiamato «il Louvre dell’Uzbekistan» in questo luogo sperduto.

Prima che l’Aral scompaia

Il secondo motivo è una lotta contro il tempo nata dal desiderio di vedere ciò che già è svanito, ciò che sta svanendo e ciò che rimane: il Lago d’Aral, triste protagonista di una delle più grandi catastrofi ecologiche di sempre. Condiviso tra Uzbekistan e Kazakistan, il lago era un bacino pescoso, che dava lavoro a molti cittadini e aveva permesso a Moynaq, un villaggio sulle sue sponde, di diventare un centro di commercio. Ma l’acqua sottratta agli affluenti e dirottata nelle piantagioni di cotone ha privato l’Aral della sua linfa vitale, rendendolo viandante in un Sahara senza oasi. Il raddoppio del disastro ambientale è poi arrivato dalla nuova monocultura che ha prosciugato il terreno e portato allo sfruttamento della manodopera, mentre i pesticidi utilizzati per far crescere le piante, sospinti dal vento, vagano liberi generando tumori e malattie degli occhi; allo stesso tempo, a poco a poco l’Aral è andato rattrappendosi, restringendosi.

L’Aral inaridito si ritira lentamente, lasciando navi arrugginite incagliate su una terra ormai sterile, color ocra, bianco e grigio

Il sale residuo rende la terra ancora più sterile, la fauna si è drasticamente ridotta; le navi sono rimaste in secca, stazionando immobili su una superficie senza onde, arrugginite, con gli scafi in vista che sembrano lische di pesci preistorici. Oggi, la dimensione del lago è meno del 90% di quella originaria, con acque che si ritirano di circa 200 metri l’anno, e si sono formati due bacini distinti: il Grande Aral e il Piccolo Aral, che il Kazakistan sta cercando di preservare, con buoni risultati, grazie alla costruzione di una diga.

L’altopiano tutto intorno, l’Ustyurt Plateau, è una distesa di meravigliosa desolazione: dalla terra arida sorgono enormi, antichi blocchi di roccia le cui forme ricordano cubi, pinnacoli o yurte, le tipiche tende degli abitanti delle steppe. Il suolo duro è venato di bianco, ocra, marroni nelle più disparate tonalità. Andando verso il Caspio kazako l’altopiano si fonde con il deserto del Mangistau, la notte il vento soffia così forte che si teme le tende possano volare via, e il cielo si illumina di lampi, animando questo strano deserto, che minaccia pioggia su terre incolte e si tinge di verde tra le rocce.

L’Anello d’Oro dell’Antica Corasmia

L’ultima, finale attrattiva, è quella delle roccaforti: Elliq-Qala («Cinquanta fortezze»), le rovine di una decina di palazzi ed edifici risalenti anche a 2000 anni or sono che sporgono, sgretolate, come rose del deserto, nella zona sud del Karakalpakstan.

Secondo gli studiosi, queste solitarie sentinelle un tempo proteggevano il confine tra la regione del delta dei fiumi, coltivata, e i territori dei nomadi, per contrastarne le incursioni e le razzie. Tutta la zona è stata ribattezzata «Anello d’Oro dell’Antica Corasmia», così come veniva chiamato il regno che includeva le circa venti qala scoperte fino ad oggi (ma ce ne sono sicuramente di più).

Sotto il sole del primo pomeriggio l’esplorazione parte da Toprak Qala, un insediamento su una piccola collina di cui rimangono basse mura e pareti, un complesso di templi eretto per volere dei sovrani di Corasmia. La disposizione delle stanze sembra un labirinto, poco più oltre la vista spazia tra sabbie, bassi arbusti e catene montuose all’orizzonte. La calura è quasi insopportabile, anche la breve salita diventa un pellegrinaggio sacro; alcuni turisti si proteggono il collo dal sole implacabile con un fazzoletto bianco di stoffa.

Più imponente e a poca distanza, raggiungibile con un rapido tragitto in macchina che fa sospirare di piacere grazie all’aria condizionata, la Kyzyl Qala presenta le mura sopra un’alta base da cui spuntano paletti e bastoni; ci si aggira un po’ spaesati curiosando all’interno della cinta e domandandosi cosa potrebbe essere successo millenni fa sul suolo che si sta calpestando.

La qala più imponente e meglio conservata è quella chiamata Ayaz. Percorriamo una strada senza traccia di altre forme di vita. Poco prima di arrivare si intravedono dei cammelli e un paio di yurte in cui è possibile pernottare. Per raggiungere la fortezza ci si inerpica su una collina occupata interamente da alte mura di mattoni crudi color ocra, punteggiata da buchi e finestrelle, i contorni si stagliano irregolari contro il cielo rovente. Una volta in cima si può scendere da uno dei versanti e continuare l’esplorazione verso le colline vicine che ospitano altri forti, per ammirare il paesaggio sgombro dall’alto. Lo sguardo spazia sotto gli occhi schermati da una mano, mentre il sole infierisce e il caldo non accenna a diminuire; qui ci si sente trascinati in un universo lontano.

Oltre le solitarie bicocche

Ai margini del deserto del Kizilkum che si è tramutato nel deserto dei Tartari, vi ritroverete come soldati a guardia di un confine ignoto ai più, a difendere un regno di nessuno da un nemico di buzzatiana memoria che non arriva mai: «Immerso ancora nel sole rosso del tramonto, come uscito da un incantesimo, Giovanni Drogo vide allora un nudo colle e sul ciglio di esso una striscia regolare e geometrica, di uno speciale colore giallastro: il profilo della Fortezza. Drogo la fissava affascinato, si domandava che cosa ci potesse essere di desiderabile in quella solitaria bicocca, quasi inaccessibile, così separata dal mondo». E allora, come Drogo, viene anche a noi di domandarci quali segreti nascondano ancora quelle sabbie senza fine.