Il 2025 è stato un anno notevole per gli adattamenti cinematografici e televisivi delle opere del noto scrittore americano
Nella postfazione di Stagioni diverse, raccolta di quattro novelle pubblicata nel 1982, Stephen King racconta di come, dopo il primo successo commerciale con Carrie nel 1974, il suo agente lo avesse messo in guardia circa il rischio di diventare etichettato come autore horror, cosa che effettivamente accadde per via dei successivi Le notti di Salem e Shining. Ironia della sorte, proprio per Stagioni diverse, che evita quasi del tutto il genere, King dovette rassicurare l’agente e l’editore dicendo che una delle quattro novelle, Il metodo di respirazione, era effettivamente una storia dell’orrore (ed è, ad oggi, l’unica delle quattro a non essere stata adattata per il cinema). Celeberrimo anche l’aneddoto della signora anziana che una volta lo rimproverò al supermercato e affermò di preferire storie più ottimiste come quella del film Le ali della libertà (quando King le rispose che era tratto da uno dei suoi testi, lei si rifiutò di credergli).
Dal Maine a Hollywood, quattro nuove trasposizioni filmiche confermano l’instancabile vitalità dell’universo kinghiano, sospeso fra orrore, empatia e critica sociale
In effetti è difficile non cedere alla tentazione di bollare lo scrittore originario del Maine come «semplice» creatore di racconti del brivido, un pregiudizio che ha anche comportato delle reazioni ostili quando ha vinto dei premi letterari importanti (in una di quelle occasioni lo difese il critico cinematografico Roger Ebert, sottolineando la qualità della prosa di King e quanto fosse evidente la sua conoscenza delle tecniche di scrittura sulla base del saggio On Writing: Autobiografia di un mestiere, manuale pratico misto a memorie personali). E va detto che lui stesso alimenta lo stereotipo, in parte con l’aiuto del figlio Joseph che, con lo pseudonimo Joe Hill, segue da anni con successo le orme paterne (è da poco uscito al cinema Black Phone 2, seguito dell’adattamento di uno dei suoi racconti). Eppure, il suo è un percorso artistico molto variegato, e a dimostrarlo quest’anno ci ha pensato soprattutto il grande schermo, con ben quattro lungometraggi basati su vari scritti di King (di cui due libri inizialmente usciti con la firma di Richard Bachman, perché all’epoca non era normale che uscisse più di un testo all’anno dello stesso autore).
Ad aprire le danze, all’inizio dell’anno, è stato The Monkey, tratto da uno dei racconti più iconici dello scrittore, solitamente usato come illustrazione di copertina per la raccolta in cui è pubblicato (Scheletri). È la storia di una scimmia giocattolo il cui meccanismo, se attivato, funge sempre da presagio macabro: se si mette a suonare il suo strumento musicale, qualcuno nelle vicinanze morirà nel giro di pochi secondi, spesso in modo violento e/o assurdo. Nella versione cinematografica è ulteriormente accentuata la componente legata allo humour nero, un po’ come nel franchise di Final Destination, e questo per esplicito volere del regista Osgood Perkins, la cui visione del cinema è dettata in non piccola parte dalla morte dei genitori: il padre – Anthony Perkins, il Norman Bates di Psycho – è stato stroncato dall’AIDS, mentre la madre era a bordo di uno dei voli dirottati nell’attentato alle Torri Gemelle nel 2001.
Durante l’estate è arrivato The Life of Chuck, già reduce dal Festival di Toronto dell’anno precedente dove ha vinto il premio del pubblico. Tratto da uno dei racconti più recenti (nella raccolta Se scorre il sangue, pubblicata nel 2020) e diretto da Mike Flanagan (Doctor Sleep), è il resoconto, in ordine cronologico inverso, di tre episodi significativi della vita del protagonista (Tom Hiddleston). A suo modo, un trattato sull’empatia e sui rapporti umani, con il paranormale che viene relegato a un ruolo minore, quasi irrilevante. Ed è giusto che la battuta-chiave del film, ripresa alla lettera dal libro, sia la frase «Io contengo moltitudini», forse la descrizione più calzante della carriera di King. Da notare che nel cast, nei panni del nonno di Chuck, c’è Mark Hamill, che appare anche nel terzo lungometraggio kinghiano del 2025: The Long Walk. Qui però è il cattivo, il Maggiore, colui che fa sì che tutto proceda secondo le regole nel corso della Lunga Marcia, una sevizia a cui vengono sottoposti ogni anno cinquanta ragazzi (cento nel romanzo): devono camminare senza fermarsi, mantenendo una determinata velocità media. Se rallentano o si fermano, ricevono un’ammonizione, e dopo tre avvertimenti vengono uccisi. Quando alla fine ne rimane uno solo, questi riceverà qualsiasi cosa desideri come premio. È tra i testi più cinici e disperati di King, che ha scritto il libro – poi pubblicato nel 1979 con lo pseudonimo di Bachman – quando era al primo anno di università, come risposta viscerale alle notizie che arrivavano sui giovani morti in Vietnam, e l’adattamento cinematografico, diretto da Francis Lawrence (uno che di distopie si intende, avendo firmato la regia di cinque capitoli di Hunger Games), non è da meno.
Dulcis in fundo, mentre su HBO negli Stati Uniti (Sky in Svizzera) impazza la serie IT: Welcome to Derry (prequel del dittico di Andy Muschietti, con Bill Skarsgård che torna nei panni del malefico clown Pennywise), nelle sale oscure l’annata kinghiana si chiude con The Running Man, pellicola d’azione ambientata in un futuro dove il programma televisivo più seguito è un reality, in cui i concorrenti devono rimanere in vita per trenta giorni – vincendo così un montepremi di un miliardo di dollari – mentre vengono braccati da killer professionisti. Se la premessa suona familiare, è perché il romanzo in questione, anch’esso inizialmente attribuito a Bachman, è già stato adattato (molto) liberamente nel 1987, con Arnold Schwarzenegger nel ruolo che quarant’anni dopo è stato assegnato a Glen Powell, nel tentativo di essere più fedeli alla fonte letteraria (ma con il solito estro stilistico di Edgar Wright, regista di opere cult come L’alba dei morti dementi e Baby Driver).
Quattro progetti molto diversi tra loro, come le quattro stagioni del libro del 1982, ma tutti accomunati dalla fedeltà all’essenza dell’opera di King: il gusto del raccontare in modo semplice ma non banale, con un’idea capace di mantenere l’attenzione del lettore/spettatore per centinaia di pagine o due ore circa sullo schermo. In questi casi, il brivido è quello del piacere di scoprire come andrà avanti la storia, e non per forza lo spavento. Perché questi libri, e i loro adattamenti, sono esattamente come l’autore che ha dato il via a tutto quanto: contengono moltitudini.

