Gli americani vogliono basi e minerali strategici, i sauditi protezione, Islamabad denaro e influenza. Russia, Cina e Iran si muovono per non restare spettatori
Dopo il buio, sono arrivate le bombe: nella notte tra l’8 e il 9 ottobre un’operazione aerea – ancora avvolta nell’incertezza sulla natura dei mezzi impiegati – ha colpito più obiettivi a Kabul e lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan. L’obiettivo dichiarato era eliminare Noor Wali Mehsud, comandante del Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP). Ma nel giro di mezz’ora Mehsud diffondeva un messaggio audio e un video per dimostrare di essere vivo e, per di più, in territorio pakistano. Islamabad non confermava né smentiva, ma due giorni dopo nuove incursioni colpivano ancora l’Afghanistan: ufficialmente per distruggere campi di addestramento del TTP, in realtà facendo strage di civili, tra cui otto giovani giocatori della nazionale afghana di cricket che si allenavano a Spin Boldak. I talebani denunciavano la violazione della sovranità e rispondevano attaccando postazioni militari pakistane, mentre Islamabad invocava, come da copione, il «diritto all’autodifesa» e la «lotta al terrorismo».
Per una settimana la Linea Durand che separa il Pakistan dall’Afghanistan, mai ufficialmente riconosciuta, è diventata una linea del fronte. Una tregua mediata dal Qatar – secondo Islamabad sollecitata dagli stessi talebani – ha congelato le ostilità . Delegazioni dei due Paesi sono state convocate a Doha per colloqui sotto l’egida qatarina per evitare un’escalation. Ma mancano meccanismi di monitoraggio credibili e la sfiducia è profonda. Dietro questa pausa fragile si muove una partita geopolitica più ampia: il confine afghano-pakistano è un crocevia strategico dove si confrontano interessi regionali e globali. Islamabad accusa i talebani afghani di offrire rifugio e addestramento al TTP, responsabile di attacchi nelle aree di confine. Ma è una verità parziale: il TTP è nato in Pakistan nel 2007, creato e manovrato da settori dell’apparato statale per colpire segmenti interni indesiderati. Da allora è diventato uno strumento geopolitico: gli attentati si intensificano ogni volta che Islamabad ha bisogno di riproporsi come «prima vittima del terrorismo», ottenere fondi, armi e legittimità . Una strategia che funziona da oltre vent’anni.
Un conflitto lampo
Oggi questa dinamica si inserisce nella rinnovata intesa tra Islamabad e Donald Trump. Perché il Pakistan è tornato nelle grazie dell’America. Si mormora, infatti, che bombardi i talebani facendo pressione su Kabul per spingere il Governo a concedere agli americani l’uso della base militare di Bagram, abbandonata dagli Usa nel 2021. Da mesi, dopo il conflitto lampo con l’India, Trump non perde occasione per lodare il Pakistan. Protagonista di questo riavvicinamento è Asim Munir, capo dell’esercito, autoproclamatosi Feldmaresciallo. A un gala in Florida ha dichiarato: «Siamo una potenza nucleare. Se cadiamo, ci portiamo dietro mezzo mondo». Un ricatto plateale. Trump lo ha accolto con sorrisi e pacche sulle spalle. Munir portava con sé campioni dei minerali strategici del Belucistan: rame, oro, litio e terre rare.
A Reko Diq si trova uno dei più grandi giacimenti del pianeta: 42 milioni di once d’oro e 12 miliardi di libbre di rame. Chi controlla Reko Diq controlla un pezzo del futuro. Nel puzzle si inserisce il patto di mutua difesa tra Pakistan e Arabia Saudita, un accordo militare vincolante. Riyadh non cerca rame né oro: vuole la copertura nucleare pakistana e, se necessario, uomini da sacrificare in guerre per procura. Islamabad è l’unico Paese islamico con la bomba e per la monarchia saudita rappresenta la garanzia estrema contro Teheran. Per l’Iran questa è una minaccia diretta: significa che una parte del deterrente saudita non è a Riyadh, ma a Islamabad. Washington osserva e tace: perché un Pakistan allineato con i sauditi e vicino agli Stati Uniti è un asset prezioso anche nella strategia per il Medio Oriente.
Il terrorismo rifiorisce
Nel frattempo, il terrorismo rifiorisce. TTP, Al Qaeda, Isis-K e altre sigle si muovono tra Afghanistan e Pakistan, coordinate o in competizione a seconda delle convenienze dei loro burattinai di Rawalpindi. Il terrorismo non è un fenomeno incontrollato ma un dispositivo politico-militare che Islamabad accende e spegne a seconda delle necessità . Diventa «terrorismo» solo quando nuoce agli interessi strategici, altrimenti viene ignorato o usato come leva di pressione. È il solito doppio gioco: creare il problema, offrirsi per risolverlo, incassare dividendi. In questa nuova partita afghana entrano in gioco anche altri attori. La Russia, già presente con reti d’intelligence e canali informali con i talebani, vede la destabilizzazione come un’occasione per logorare la proiezione Usa nell’Asia centrale. La Cina, con investimenti già pianificati sulle rotte energetiche e minerarie, teme il caos ma è pronta a sfruttare ogni spiraglio per consolidare la propria presenza economica.
L’Iran, infine, osserva con crescente preoccupazione la saldatura tra Islamabad, Riyadh e Washington: la deterrenza nucleare pakistana, intrecciata agli interessi sauditi, rappresenta per Teheran una minaccia immediata. Per questo rafforza i legami con alcuni gruppi afghani sciiti e con reti clandestine di influenza a ovest del Paese, cercando di prepararsi a un conflitto per procura che potrebbe esplodere su più fronti. Il Pakistan gioca al solito su più tavoli. Con gli Usa si presenta come partner indispensabile per la stabilità regionale. Con Riyadh garantisce deterrenza nucleare e capacità militare d’appoggio. Con i gruppi jihadisti mantiene strumenti di pressione contro i vicini. E nello spazio lasciato libero dagli americani dopo il 2021, rientrano ora Mosca, Pechino e Teheran, ciascuna con interessi e obiettivi diversi. Ogni crisi diventa un’occasione per rafforzare la propria centralità strategica. La tregua sulla Linea Durand non è che una pausa tattica. È una pellicola sottile sopra un’escalation potenziale. Gli Usa vogliono basi, i sauditi protezione, Islamabad denaro e influenza. Russia, Cina e Iran si muovono per non restare spettatori. E il terrorismo, mai sradicato, resta la leva più efficace per tenere tutti seduti al tavolo con la pistola puntata sotto la tovaglia.
