Essere presenti nel momento in cui l’altro ha bisogno di capire è la chiave dell’informazione sui vaccini
«Ho sempre avuto dubbi sui vaccini, soprattutto per la quantità somministrata nei primi mesi. Ho letto molto online e ho deciso di rimandare, anche se il pediatra non era d’accordo. Preferisco aspettare e decidere con calma», racconta Marta, mamma di un bimbo di due anni. Dall’altra parte, Luca e Serena, genitori di tre figli, non hanno esitato: «Abbiamo scelto di vaccinarli seguendo il calendario. È una forma di protezione non solo per loro, ma anche per chi non può vaccinarsi. Abbiamo parlato con il nostro pediatra e ci siamo sentiti rassicurati». Negli ultimi anni, mentre a livello globale milioni di bambini continuano a non ricevere le vaccinazioni di base (con oltre 14 milioni di «zero‑dose» solo nel 2024), la Svizzera si distingue per una copertura generalmente elevata. L’UFSP segnala un aumento della copertura contro il morbillo nei bambini fino a 2 anni, passata dal 90 % al 94 % tra il periodo 2017–2019 e il 2020–2022. Tuttavia, anche in Svizzera esistono ancora zone dove i livelli raccomandati non vengono raggiunti, e permangono differenze significative tra cantoni e contesti socio‑culturali. Malattie come il morbillo e la poliomielite, un tempo considerate sconfitte, oggi tornano a suscitare preoccupazione a causa di esitazione vaccinale, disinformazione e sfiducia nelle istituzioni.
In questo scenario, è fondamentale fare chiarezza consultando un pediatra infettivologo per capire cosa rischiano oggi i bambini non vaccinati, anche in un Paese come il nostro. Ne abbiamo parlato con il dottor Alessandro Diana, pediatra infettivologo e docente all’Università di Ginevra, il quale suggerisce che la vera risposta alla domanda su cosa pensi la popolazione svizzera dei vaccini sta nell’ascoltare, non nel convincere: «In Svizzera, il rapporto con i vaccini non è né completamente fiducioso né apertamente ostile. È, piuttosto, una questione di dialogo, sfumature e fiducia da costruire». A dirlo non è solo il nostro interlocutore, ma uno studio recente commissionato dall’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP), realizzato da Careum e dall’istituto gfs.bern, che ha analizzato come la popolazione elvetica si orienta di fronte alla vaccinazione. Studio nei cui numeri il dottor Diana ha trovato una conferma alle sue esperienze quotidiane: «La decisione di vaccinarsi è vissuta sempre più come qualcosa di personale. L’informazione c’è, ma non basta, e conta molto di più il rapporto di fiducia tra medico e paziente».
Il problema sta nel fatto che «tanti cercano informazione, ma pochi sanno a chi credere». Infatti, secondo lo studio, «più della metà degli svizzeri (51%) dichiara di avere difficoltà a orientarsi tra le informazioni sui vaccini». Non tanto per mancanza di fonti, quanto per la difficoltà a capire quali siano affidabili: «Il 63% ha problemi a giudicare la credibilità di ciò che legge, e il 61% fa fatica a distinguere tra vera informazione e disinformazione». Un dato curioso emerge dalle domande di conoscenza fattuale: «Solo il 36% ha risposto correttamente a tutte e quattro le domande poste, mentre il 23% ha dato tre risposte esatte, ma almeno una volta ha scelto “non so”». Eppure, osserva Diana, «nonostante i dubbi, i dati sulla copertura vaccinale mostrano una tendenza positiva: rispetto al 2018, le vaccinazioni contro morbillo, pertosse, epatite B e tetano sono in aumento. Solo quella contro l’influenza stagionale è leggermente calata». L’analisi evidenzia una zona grigia fra gli indecisi e divide la popolazione in tre grandi gruppi: «I favorevoli alla vaccinazione (65%), i critici (7%) e una larga fascia “incerta” che comprende circa il 60% degli intervistati». Una sovrapposizione tra categorie che mostra posizioni non rigide, ma spesso ambivalenti. «Ed è proprio in questa zona di incertezza che si giocano le decisioni importanti», osserva il nostro interlocutore secondo cui chi esita non è necessariamente contrario: «È una persona che si fa domande, che vuole capire prima di decidere. Ma per farlo, ha bisogno di sentirsi accolta, non giudicata».
Il medico sottolinea che il dubbio non è un difetto: «È una fase naturale del ragionamento, e attaccarlo con una valanga di argomenti razionali spesso ottiene l’effetto opposto irrigidendo le posizioni». L’approccio vincente sta nella sfida dell’ascolto, suggerisce il dottor Diana, e non è cercare di «vincere» il dibattito, ma costruire un dialogo: «Significa creare uno spazio dove le persone si sentano libere di fare domande, esprimere timori, cambiare idea. In questo senso, il medico non è solo un esperto di salute, ma anche un educatore paziente». Lo studio conferma che le fonti più ascoltate e più credibili restano i medici di famiglia: «L’85% delle persone si rivolge a loro, e il 90% li ritiene affidabili. Le autorità sanitarie sono giudicate credibili solo dal 52% dei cittadini, e meno del 40% le consulta. I farmacisti godono della fiducia del 40%, ma vengono consultati ancora meno (18%)».
Per questo, secondo Diana servono nuove competenze comunicative tra i professionisti sanitari. «Tecniche come l’ascolto attivo, la riformulazione delle domande, o il metodo Ask-Offer-Ask (chiedi-offri-chiedi), ispirato al colloquio motivazionale, possono fare la differenza». Un’altra proposta emersa è quella di introdurre già nella scuola l’educazione alla scelta vaccinale, perché pure secondo Diana «è fondamentale abituare i giovani a valutare fonti, distinguere i fatti dalle opinioni e sviluppare una coscienza informata». Ma attenzione anche agli ostacoli strutturali. «Lo studio evidenzia che la fiducia nei vaccini è spesso legata al livello socio-economico, alla lingua parlata e all’accesso ai servizi sanitari. Le persone più critiche, ad esempio, si fidano molto meno delle istituzioni pubbliche (solo il 13%) e dei medici (62%), ma danno più credito alla medicina complementare (24-25%)». Alla fine, la scelta di vaccinarsi o meno nasce dal rapporto umano e l’esperienza sul campo conferma ciò che i dati dicono: «I livelli di copertura vaccinale variano molto: circa il 90% degli adulti è vaccinato contro il tetano, l’80% contro il COVID-19, il 68% contro il morbillo, ma solo il 23% contro l’influenza e il 13% contro l’HPV». Chi è molto favorevole ai vaccini tende ad averne ricevuti di più (54% con almeno 5 vaccini), mentre chi ha più dubbi è meno coperto (solo il 15% ha ricevuto 5 o più vaccini). Per il COVID-19, la differenza è ancora più marcata: «91% tra i favorevoli, 66% tra i moderati, solo 34% tra i poco propensi».
A questo punto, il nostro interlocutore porta ad esempio la Svizzera romanda dove esercita e dove, proprio per rispondere a queste esigenze, è stato creato un workshop formativo rivolto agli operatori sanitari sulle modalità per comunicare con le persone esitanti sulla vaccinazione, in cui si mettono a confronto l’approccio informativo e quello motivazionale, con giochi di ruolo e debriefing: «I partecipanti ne escono con più sicurezza nel parlare di vaccini, meno tensioni nei colloqui e una maggiore capacità di accompagnare i pazienti verso una scelta consapevole». La chiave, dunque, risiede nella relazione, e la «competenza vaccinale» non è solo una questione di nozioni o di percentuali, bensì un intreccio di conoscenze, fiducia e dialogo che si costruisce giorno dopo giorno, nel rapporto tra persone. Come ci ricorda il dottor Diana: «Non si tratta di avere ragione, ma di essere presenti nel momento in cui l’altro ha bisogno di capire».
