Un’italica "transiberiana" unisce altipiani e borghi lungo cento chilometri di rotaia da Sulmona a Isernia nel cuore di Abruzzo e Molise
Attraversa il cuore dell’Abruzzo e del Molise, il treno storico che unisce Sulmona a Isernia; e il suo nome fa sognare i viaggiatori con un omaggio alla ferrovia più lunga del mondo: Transiberiana d’Italia. La sua sola esistenza è un elogio alla lentezza. Montare in una delle sue carrozze significa fare un tuffo nel passato: i suoi vagoni hanno ancora sedili in legno e le tendine di velluto oscurano solo in parte i vetri dietro ai quali scorrono paesaggi che sconfinano nei parchi della Maiella, d’Abruzzo e nella riserva dell’Alto Molise
La storia di questa linea ferroviaria è unica e particolare. Inaugurata nel 1897, per oltre un secolo ha unito l’Adriatico al Tirreno, partendo da Pescara per raggiungere Napoli. Per il suo percorso, che attraversava l’Appennino, e per la morfologia del terreno lungo il quale si srotolano i binari, fu da subito considerata un’opera di ingegneria lodevole. Purtroppo, durante la Seconda guerra mondiale una buona parte del tracciato venne distrutto. Riattivata intorno agli anni Cinquanta fu ancora utilizzata per gli spostamenti interni. Ma nuove strade e una diffusione sempre maggiore di automobili, negli anni, portarono prima a una riduzione del tragitto e – come capita nelle lente agonie – alla sua definitiva sospensione nel 2010. Ma le cose belle hanno diritto a una seconda vita. Così nel 2014 si è deciso di riaprire il tratto che unisce Sulmona a Isernia.
Inaugurata nel 1897, sospesa nel 2010 e riaperta nel 2014, la Transiberiana d’Italia racconta la storia di oltre un secolo di viaggi, guerra, e ricostruzioni
Parliamo di cento chilometri da percorrere in tre ore circa, salendo fino a una quota di 1260 mslm, passando in gallerie lunghe fino a tre chilometri, come quella che attraversa il monte Pagano, e viaggiando sopra viadotti e ponti.
Un lungo fischio annuncia l’arrivo del treno alla stazione di Sulmona, trainato da una vecchia locomotiva diesel degli anni Sessanta. Ogni scompartimento ha la sua porta d’ingresso, infatti si chiamano vagoni cento porte, e basta salire i tre gradini di legno per entrare in un altro mondo, fatto di odori antichi e luci calde, lungo un corridoio centrale che divide i vari scompartimenti con le panche di legno. Appena usciti da Sulmona, il treno inizia a salire verso le cime dei monti dell’Appennino. A volte arranca, rallenta ma poi riprende la sua corsa. Il paesaggio è bellissimo, piccoli paesi sono arroccati sulle pareti dei monti della Maiella, boschi di faggio si alternano ad altopiani.
Il clima all’interno è conviviale. Accanto a me, è seduta una coppia di anziani sui 75 anni che arriva dal Canada. Sono emigrati con le famiglie quando erano piccoli: «Facevo questo viaggio con mia mamma quando avevo 5 o 6 anni, prima di emigrare dall’altra parte dell’Oceano» – mi dice Maria, nella sua chiara camicia azzurra, i capelli bianchi e ben pettinati, un viso sereno impreziosito da due profondi occhi neri. «Il treno era uguale a questo e ricordo che andavamo a Roccaraso a trovare mia zia – continua con la sua voce entusiasta mentre il marito, Paolo, le tiene la mano – facevo il viaggio interamente con gli occhi che guardavano fuori. Un viaggio lungo, ma per noi bambini era un’avventura affascinante. Non è cambiato molto da allora». E subito torna a guardare le montagne e i prati che ci circondano per poi voltarsi e aggiungere: «Noi non la chiamavamo la Transiberiana d’Italia, per noi era solo il nostro treno».
La definizione Transiberiana d’Italia in effetti risale al 1980: così ne scrisse il giornalista Luciano Zappegno che, durante un reportage di un viaggio in treno attraverso l’Appennino, rimase bloccato su questa tratta a causa della neve. Ma se la transiberiana dell’ex Unione Sovietica attraversa distese e steppe, questa invece sale sul massiccio della Maiella, attraversa gli altipiani d’Abruzzo e poi scende fino a Isernia. E dunque forse l’associazione non deriva tanto dal paesaggio che circonda le rotaie, ma dal viaggio epico che accomuna i due treni. Un viaggio non convenzionale, unico, pieno di storia e di vita.
Oramai abbiamo superato il punto più alto del viaggio, quota 1260 metri, il cielo è terso, anche se ci sono nuvole nere all’orizzonte. Piccoli paesi aggrappati alla montagna sembrano usciti dai presepi natalizi. Il clima nel vagone è rilassato e c’è chi si sposta da un lato all’altro per poter vedere il paesaggio. Qualcuno si sporge dal finestrino per fare una foto migliore. Un piccolo gruppo musicale con un repertorio di canzoni popolari abruzzesi porta allegria ai viaggiatori e li invita a cantare con loro. Quando sono nel nostro vagone il suono della fisarmonica e le voci potenti riempiono l’aria. Paolo, il nostro emigrante dal Canada chiede alla moglie come si chiamava quella canzone che parla del pavone. Vola, vola, vola gli risponde lei chiedendo al trio musicale se possono cantarla, e con loro si uniscono i passeggeri: parla di un pavone, d’amore, di lontananza.
Finita la cantata, Paolo, con il suo cappellino arricchito da una spilla con la bandiera canadese e quella italiana, mi dice che «questa era una canzone che cantava sempre mio padre in Canada. Io sono nato tra questi monti, ma a pochi anni d’età mi hanno portato nella terra dello sciroppo d’acero», si aggiusta il cappellino, si gratta il naso importante per poi guardarmi di nuovo con quei suoi occhi azzurro acqua: «Io non avevo mai preso questo treno ma mia moglie ne parlava ogni tanto e così, al nostro ritorno in Italia per le vacanze eccoci qui sul vagone. Devo dire che è un modo originale e bello per scoprire queste terre meravigliose».
Più di un viaggio in treno, un’esperienza che celebra la lentezza e il contattocon i paesaggi montani
Arriviamo alla stazione di Castel di Sangro. Carlo, il capotreno, apre le porte delle carrozze per far scendere alcuni viaggiatori. Dei bambini chiedono speranzosi se riusciranno a vedere un orso, l’animale simbolo dell’Abruzzo. «Chi scende qui va a fare un’escursione organizzata e li riprendiamo al ritorno». Ne approfitto per spostarmi in una carrozza vuota e fare il resto del viaggio insieme al capotreno. Carlo, nella sua divisa d’ordinanza, modi gentili e un sorriso bonario mi racconta altre storie del treno: «Oggi l’ultima stazione dove arriviamo è quella di Carovilli, ma si spera nel 2026 di arrivare fino a Isernia. I lavori alla linea sono stati completati, mancano solo alcune autorizzazioni». Si aggiusta la giacca, accavalla le gambe e continua: «Oggi sei fortunato che puoi goderti una carrozza tutta per te, pensa che d’inverno, quando ci sono i mercatini di Natale nelle due o tre fermate che facciamo, Roccaraso, Castel di Sangro e Carovilli, viaggiano più di 800 persone al giorno».
Lasciandomi cullare dal dondolio, guardo questo vagone con le panche di legno, le porte e i finestrini che si aprono manualmente e non posso fare a meno di pensare a chi viaggiava su questo treno 60 o 70 anni or sono. Lavoratori, famiglie, gente semplice che usava il convoglio per andare a trovare i parenti in qualche villaggio vicino.
Dal finestrino, nei campi vedo enormi balle rotonde di fieno, cavalli allo stato brado e greggi di pecore, mentre la voce di Carlo mi riporta al presente per dirmi che questi vagoni durante la guerra furono usati come ospedale: «Eh, ne hanno viste di cose queste carrozze, hanno trasportato feriti, immigrati che andavano a Napoli per salpare verso l’America. Oggi è un treno storico che oltre a una bella esperienza di viaggio tiene vivi i ricordi».
Siamo arrivati al capolinea, nel paese di Carovilli. Anche qui molti viaggiatori sono attesi per delle escursioni organizzate. A tutti viene raccomandato di essere puntuali, che l’orario della partenza per il ritorno è alle 16.00. Saluto Carlo e osservo i vari gruppi che si incamminano verso il borgo antico alla scoperta di tradizioni e storie curiose. Mi siedo su un muretto della stazione e guardo il treno. Bello nonostante gli anni, affascinante anche se non tecnologico. Un destriero in metallo che si riposa dopo una lunga cavalcata e che aspetta paziente per riportarti a casa










