Reportage culturale: viaggio negli «sconosciuti nidi di montagna» dell’Aspromonte e della Costa degli Dei, tra fotografie, litografie e storie di paese
«Chi sei? Da dove vieni? Cosa stai facendo qui? Dove stai andando? Un flusso di domande ed esclamazioni: il ghiaccio era stato rotto». Così scriveva l’incisore olandese Maurits Cornelis Escher sul suo diario di viaggio, dopo un lungo peregrinare – il più delle volte a dorso di mulo – attraverso ciò che lui stesso definì «gli sconosciuti nidi di montagna nell’entroterra inospitale della Calabria», luoghi circondati da una natura selvaggia e abitati dalla curiosità insistente di chi non è solito vedere stranieri. Allora come oggi.
Poco è cambiato dagli anni Trenta. Le medesime domande le hanno poste anche a noi, mentre ci addentravamo, come Escher, fra quei borghi arroccati a picco sul mondo che, vittoriosi sulle rocce inclementi degli Appennini, continuano a riemergere fieri e tenaci dalla risacca del tempo, con tutto il loro carico di mistero e di silenzi.
Escher scattò diverse fotografie durante quel viaggio, come spunto per la realizzazione di litografie e xilografie. Fu Pentedattilo a sconvolgere la sua mente, quella nuda montagna a forma di mano alla base della quale indugia un nugolo smarrito di casupole in pietra, dove abitano soltanto anziani, testardi, artisti e «il mercante di sogni», un gentiluomo dai capelli bianchi raccolti in una coda che vende sacchetti di manufatti realizzati dai bambini con materiali riciclati: «Un sogno in cambio di una monetina», ci ripete. Ha la voce del cantastorie. Gliene lasciamo due.
A Scilla, invece, si sogna Omero. Il suo promontorio che si protrae arrogante sul mare, offrendo ai capricci delle onde i solidi contrafforti del castello dei Ruffo di Sicilia, al tramonto quasi si infiamma di viola, con le sue abitazioni a strapiombo sui marosi a supplicare la protezione degli dei: la foschia. Anche Escher la vide. E non seppe spiegarla. Si solleva d’estate al calar della luce, creando, come già fece in passato agli occhi illusi dei Greci, ombre, spettri e schiere di uomini erranti – a scoraggiare i malvoluti.
A Tropea, una foto ritrae l’artista seduto sul muricciolo in cima allo scoglio che ospita il Santuario di Santa Maria, proprio dirimpetto ai ciclopici bastioni di roccia sui quali la città saldamente poggia. Gaetano non era ancora nato. Peccato. Lo avrebbe trovato simpatico, quel marinaio dalle mille e una storia. Ha il suo laboratorio in un antro buio e tempestoso dove tesse le reti come fossero tele di ragno, al ritmo di antiche cantilene, di quelle che i navigatori erano soliti intonare per vincere la solitudine o le burrasche che non perdonano mai.
Sulla stampa che ritrae la Cattolica di Stilo, piccola chiesa bizantina addossata al dorso della montagna, Escher ha giocato d’estro, sostituendo l’omonimo paese sottostante con una fiumara e mettendo quindi a tacere le tante voci che tra le vie da sempre si spandono. Sono quelle delle donne, che dialogano dall’alto delle loro ceste di legumi da sgranare o da dietro le finestre, direttamente dal loro asse da stiro. A parte Anna, un’anziana signora che ogni giorno, a mezzodì, siede sullo scalino interno della sua casa, appoggiando il gomito direttamente sul selciato, il volto inclinato da un lato a scorgere qualche anima pia con cui intrattenersi.
Gli anni di Escher in Calabria furono anche quelli delle visite da parte del re d’Italia Vittorio Emanuele III, soprattutto a Santa Severina, nei cui boschi il sovrano di Casa Savoia si dice amasse andare a caccia. Alla «Locanda del Re», ancora oggi si narra che, durante una battuta, il suo cane fedele venne incidentalmente ferito e che, a curarlo, fosse stato il dottore del paese, il quale aveva il suo studio proprio dove ora sorge la locanda. Molti sostengono sia solo una diceria, tuttavia il proprietario Giuseppe ci crede e ha collocato, nell’angolo della sala da pranzo, un grande trono in legno tempestato di fondi di bottiglia, con tanto di scettro e corona di cartapesta.
Gente che ama divertirsi, i calabresi. «Il suonatore ha alzato lo sguardo, sorridendo, sicuro di sé – si legge nel diario di Escher – e intorno a lui, una fitta siepe di ascoltatori che applaudivano e gridavano: bravo!, bravo! Bis, bis!». Come alla taverna «La Casa Incantata» di Rocca Imperiale, dove si balla la tarantella fino a notte inoltrata, quando per le vie non girano altro che gatti randagi, incalliti fumatori e insonni cronici. All’ingresso del paese si trova il Monastero dei frati minori, ora in caldi mattoni a vista ma, ai tempi di Escher, bianco come la neve che qui non cade (quasi) mai.
Le nevicate a Rossano, al contrario, sembrano una maledizione: bloccano tutto. Tutto tranne le tavolate sempre chiassose della trattoria «La Bizantina», con il suo tipico antipasto calabrese di ben sette abbondanti portate e quella saletta attigua, tutta in pietra, che il proprietario Piero mi confessa essere stata, un tempo, parte del monastero di Santa Anastasia. Piero è nato qui. Ma prima di lui, in quella stanza, ci vivevano in sette. E dopo di lui, nonna Rosina (l’avrà conosciuta Escher?) che gli lasciava in un angolo una brocca d’acqua sempre piena – cosiddetta «gummula» – con la quale lui e i suoi amici si dissetavano dopo lunghe ed estenuanti scorribande.
Chi decidesse invece di farsi una scarpinata nella verticale Morano Calabro ha già perso in partenza, con le sue pendenze aggrovigliate, gli scalini a zig-zag e una forma a cono che tanto ricorda un capovolto inferno dantesco – là concavo, qui convesso. Non è altri che un dedalo fitto di vicoli impregnati di un’umidità antica, aggrappata ai muri probabilmente dall’epoca degli Aragonesi. Escher, di questo paese, si è letteralmente innamorato. Così follemente da inciderlo al contrario.
Infine Palizzi, dove l’artista giunse «dopo un lungo e faticoso viaggio sotto il sole duro – parole sue – gravati dal pesante fardello dei nostri zaini, grondanti di sudore e senza fiato». Con le sue casine ammonticchiate ai piedi di una rupe troneggiante di un rinnovato castello, Palizzi ha tutto l’aspetto di ultimo avamposto del mondo conosciuto, l’approdo sicuro dopo le vertiginose stradine che vagano apparentemente senza meta attraverso il selvaggio Parco dell’Aspromonte. Ma è un paese deserto, ormai lasciato andare alla deriva del tempo. Solo un bottegaio tiene duro, per quei pochi viandanti che qui, come lo stesso Escher, si sono persi. Vende biscotti al bergamotto, qualche confettura di frutta selvatica e barattoli di verdure sottaceto. E vino locale. «Abbiamo bevuto troppo, il che è stato piacevole e ha migliorato la buona comprensione».

