A colloquio con la cantautrice italiana, di cui è appena uscito il disco Teatro
Quando la raggiungo nel giardino interno di un grazioso caffè di Milano, Marianne Mirage (all’anagrafe Giovanna Gardelli, classe 1989) sta prendendo appunti su un quadernetto elegante che porta sempre con sé. Mi mostra le sue pagine, piene di parole e disegni. E mi spiega che questo è il modo che utilizza per coltivare il ricordo del passato.
Nel suo passato, Marianne Mirage di cose belle ne ha collezionate parecchie. Naturalmente naïf ed elegante, è una cantautrice che ha già conquistato il cuore di molti, a partire dalla sua partecipazione tra le Nuove Proposte del Festival di Sanremo 2017 con Le Canzoni fanno male. Grazie a quell’esperienza le sono arrivate molte occasioni speciali, che – in alcuni casi – le hanno permesso di unire il suo amore per la musica a quello per il cinema. Un esempio? Paolo Genovese le ha affidato la scrittura della canzone The Place per l’omonimo film, che le è valsa una candidatura ai David di Donatello come «Migliore Canzone Originale» e la vittoria di un Nastro d’Argento nella stessa categoria.
Il suo ultimo singolo, invece, è Il Campo: la fotografia dolcissima di una vita e di persone semplici. Come ci ha raccontato, è dedicato ad Anna, «la signora che vive vicino alla mia casa di nascita».
Come l’ha presa?
Si è quasi vergognata: per lei era troppo. Non è abituata a stare sotto i riflettori. Anzi… Si sveglia alle quattro, quando inizia a fare i suoi lavori. Quando le dico «Domattina passo a salutarti» si mette a ridere perché per me vuol dire arrivare alle 13».
Scrive da sempre sui suoi diari?
Quando avevo dieci anni mio padre mi ha detto: «Scriviti tutto perché la mente non ha ricordi». Mi aveva sconvolto. «Ma come? Non avremo più niente?». E quindi ho iniziato a scrivermi tutto: cosa penso, dove sono, cosa faccio…
È anche insegnante di arti olistiche… 
Questa parte di me fa sì che io sia la persona che sono oggi. Nel silenzio c’è musica e la musica può creare silenzio. La meditazione e la musica vanno nello stesso punto, dove si sospendono tutte le attività e finalmente ti centri dentro te stesso. Quando lo fai trovi gli altri. Ho iniziato a praticare yoga tredici anni fa, perché stavo vivendo un lutto. Stare sul tappetino mi ha ancorato: mi ha fatto vivere nel presente.
Il suo primo ricordo legato alla musica?
Grazie a mio padre. Lui dipingeva nel suo laboratorio e teneva la porta socchiusa. Ascoltava il jazz. Io volevo entrare lì dentro e vedere cosa succedeva, così spiavo e vedevo che prendeva i pennelli, che colorava. E intanto sentivo questa voce maestosa dietro. Lì ho scoperto la magia della musica e da allora ho sempre sentito la sacralità della musica.
Che adolescenza ha passato in Romagna?
Tormentata. Sono cresciuta con i Nirvana. Quindi ho unito il lato jazz di Billie Holiday alla veracità di Kurt Cobain, leggendomi i suoi diari. Poi ho letto Bob Dylan e Il giovane Holden, che viaggiava e si metteva nei casini… Ho voluto farlo anch’io. E cos’ha fatto? A 16 anni sono andata in Irlanda da sola. Dormivo su divani e suonavo per strada facendo la busker. Non volevo che mi prendesse la noia della provincia. Così sono andata a Berlino, Londra e Parigi. Fino a quando i miei genitori non sono venuti a prendermi: «Adesso basta. Ti devi prendere una laurea». Così ho fatto Lettere e filosofia a Bologna.
Il momento più bello della sua carriera?
Quando Patti Smith (a cui ha aperto le date italiane del tour nel 2017, ndr) mi ha chiesto di salire con lei sul palco a cantare People Have The Power. Lei è una donna che trasforma; spero di imparare da lei quest’arte.
Il suo quarto disco Teatro è molto evocativo. Cosa vi ha inserito di sé?
Tutto. Ero totalmente immersa. Quando scrivi un disco cambia tutto e cambi anche tu, come un dipinto che prende forma. Volevo che attingesse più all’inconscio che alla realtà, così come un diamante. La mia amica esperta di cristalloterapia considera Teatro come l’ossidiana: una pietra vulcanica, nera, lucidissima. Ti trascina alla terra e ti spara nel cielo, come se connettesse cielo e terra. I cristalli parlano all’inconscio: non parlano alla realtà. E anche il mio disco lo fa.
Cosa la commuove?
Tutto. In questo mi sento molto simile a Monica Vitti quando passa dal tragico al comico in quattro secondi. In più io nasco come attrice: penso che mi abbia molto provato il corso d’attrice (al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano, ndr). Per uscire ed entrare dalle storie devi essere capace a piangere in trenta secondi. Ma per farlo devi subito connetterti con l’emozione più grande che hai dentro. Io sono sempre lì, vicina a una crisi di pianto.
Nel suo ultimo disco c’è l’emozionante La canzone del vampiro. Di cosa parla?
Io sono figlia di un padre molto più grande. Ora non sono più la figlia accudita ma la figlia che accudisce. Quindi questa canzone è una ninna nanna al contrario: anziché farmela cantare, sono io che la canto a lui. Canto la gratitudine per la presenza di un padre. E parlo dell’ultimo momento in cui ci si saluta e ci si dice: «Ti ho voluto bene. Se dovesse essere l’ultimo giorno, sono felice di passarlo con te».
 
			         
			         
			        