Per una poetica che affronta la vita di petto

by azione azione
29 Settembre 2025

Antonio Franchini si racconta in vista di Sconfinare Festival di Bellinzona (9-12 ottobre 2025), che lo avrà come ospite accanto a Lingiardi, De Gregorio, Ferraris, Gheno, Bergonzoni, Falcinelli, De Cataldo e Nazzi sul tema del corpo

È esercizio, rischio, limite, memoria, resiste e si piega, ricorda e dimentica, si fa linguaggio e ferita: Sconfinare sceglie il corpo quale terreno di indagine e di conflitto, per la sesta edizione del Festival culturale che avrà luogo in Piazza del Sole, a Bellinzona, dal 9 al 12 ottobre 2025. Per quattro giorni filosofi e psicoanalisti, artisti e scrittori interrogheranno i limiti del corpo: Maurizio Ferraris e Vittorio Lingiardi, per dire, lo metteranno a confronto con le identità che cambiano, Alessandro Bergonzoni ne esaspererà le metamorfosi, Riccardo Falcinelli ne seguirà le forme, Giancarlo De Cataldo i segni del crimine.

Nel coro delle voci autorevoli si inserisce l’autore ed editor Antonio Franchini (con un incontro intitolato Il corpo della scrittura, la scrittura del corpo), che del corpo ha fatto un banco di prova costante: quello allenato nei gesti ripetuti sul tatami, quello esposto sul ring, quello combattuto sulla pagina sia da editor sia da scrittore. Con lui abbiamo parlato delle tracce che la corporeità lascia nella vita, nelle relazioni, nella scrittura.

Molti suoi testi, così come il suo approccio agli sport da combattimento, sembrano nascere da un confronto diretto, quasi fisico, con la realtà: è una forma di resistenza o di cura?
Sì, sono un po’ entrambe le cose. Da un punto di vista personale sono sempre state, e sono, per me una forma «di resistenza e cura». Non ho mai usato questa formula, ma la trovo molto pertinente, mi ci riconosco. Dal punto di vista, invece, della poetica, se così si può ancora dire, il filtro marziale mi è servito per affrontare la realtà il più direttamente possibile, senza troppi filtri. Intendiamoci, non ho mai pensato di poter abolire il filtro della letterarietà, dello stile, della ricerca formale, ma non l’ho mai voluto assolutizzare. L’arte serve se affronta la vita di petto e ci rivela qualcosa, non se ci gira attorno e ci confonde.

Porta il nome di uno zio artista morto: il corpo assente che segna il corpo presente. Quanto ha pesato, e ancora pesa questa eredità «incarnata» sul suo percorso di scrittore?
Ha pesato molto e mi sorprendo ancora a parlarne. Anzi, sono contento perché l’esperienza sua e di altri giovani artisti e letterati napoletani che, durante gli anni della guerra, si sacrificarono per il riscatto morale della nazione combattendo al fianco degli alleati, è oggi molto riscoperta e più conosciuta e viva e attuale di quanto non fosse nei decenni passati.

In Quando vi ucciderete maestro (1996) emerge che la letteratura ridotta a puro stile sarebbe sterile come l’arte marziale che rinuncia al combattimento; ma sembra aver cambiato prospettiva nel racconto Il vecchio lottatore (2020). Vale ancora per lei questa visione?
Lo stile resta un ornamento superfluo, oppure è un muscolo indispensabile della pagina?
Diciamo che ne Il vecchio lottatore, come è giusto che accada quando ci si avvicina all’ultima fase della vita, certe posizioni si fanno meno radicali e più sfumate, ma io, come dicevo prima, non ho mai considerato lo stile un ornamento superfluo; ne ho solo condannato certi eccessi, quando mi sembrava che si svuotassero i contenuti.

Si potrebbe dire che la disciplina dello scrivere funzioni come un allenamento, non di muscoli, ma di resistenza, di concentrazione, di durata?
In realtà per me la scrittura è sempre stata più un pensiero continuo che una pratica costante. Le discipline del corpo, invece, l’esatto contrario.

Spesso si racconta il mestiere dell’editor come un confronto serrato con i testi e con gli autori. Se dovesse pensarlo in termini fisici, quasi muscolari, quali segni o conseguenze direbbe che lascia quel tipo di pratica?
C’è un modo d’intendere l’editing (e, di conseguenza, il ruolo dell’editor) molto prescrittivo, agonistico, drammatico, quasi. Un confronto tra l’editor e lo scrittore volto a fare uscire la vera voce dell’autore attraverso uno scontro molto duro. Questo però non è mai stato il mio approccio. Ho quasi sempre pubblicato opere che mi convincevano, magari con piccoli suggerimenti su ritocchi, aggiunte, eliminazioni. Non ho mai ingaggiato scontri all’ultimo sangue con gli autori per imporre revisioni radicali. Le battaglie vere le ho fatte soprattutto con me stesso.

È passato dal ring all’arena famigliare: continuità o rottura?
Ah, bella domanda! Direi continuità.

In Il fuoco che ti porti dentro, recensito da Azione il 4 novembre 2024, rende sua madre un personaggio letterario sottraendole in un certo qual modo il suo corpo reale, pur rendendolo tangibile con le parole: si è trattato solo di una necessità narratologica, o di un bisogno dell’autore per prendere distanza dalla materia narrativa troppo dolorosa?
L’idea era quella di rendere Angela un personaggio letterario, sottraendola alla sua dimensione privata e al suo rapporto privato con l’autore per metterne in evidenza la sua universalità o, perlomeno, la sua comune identità napoletana, meridionale e, in senso più lato, italiana. Per fare questo non le ho sottratto il corpo reale, anzi, gli aspetti più marcati della sua carnalità li ho conservati tutti, magari esasperandoli. Al contrario, ho sottratto la sua «identità reale», perché, per l’appunto, l’Angela de Il fuoco che ti porti dentro è un personaggio letterario e non la vera Angela Izzo coniugata Franchini. Per un autore che affronti un personaggio reale con un intento fortemente letterario non esiste nessuna materia che sia troppo dolorosa perché la distanza è sempre imposta, per l’appunto, dalla letteratura.

I suoi libri mostrano il corpo come forza, perdita, ostacolo. C’è oggi una di queste dimensioni che sente più vicina?
Il corpo è sempre, come dice bene la sua domanda, tante cose insieme. E rimarrà sempre tutte quelle cose. La dimensione della perdita c’è sempre, e si rafforza con gli anni. Il corpo come ostacolo appartiene di più alla giovinezza, quando non ci si rassegna al fatto che il corpo possa essere un ostacolo. A una certa età con gli ostacoli rappresentati dal corpo ci fai pace. Anche la forza si attenua, ovviamente, ma io non ci ho ancora rinunciato.

La scrittura nasce come gesto corporeo – la mano, il braccio, il corpo intero coinvolti nel segno – ma oggi, fra tastiera e intelligenza artificiale, stiamo perdendo questa radice fisica. Lei come si colloca davanti a questa trasformazione? Quanto conta per lei scrivere come un atto che impegna il corpo non meno della mente?
Sono uno che ha sempre resistito, come poteva, alla modernità. Se potessi, scriverei sempre a penna. E scrivo a penna, infatti, anche se non posso fare a meno del computer, che comunque uso a malincuore. Anche fisicamente mi alleno con strumenti antichi. Ma anche questa è una moda. Moderna, purtroppo.