Accettare o meno i costi aggiuntivi dei caccia Usa? Ecco le varianti emerse finora dal Consiglio federale e dai parlamentari
È stata un’estate rovente per l’esercito svizzero, messo alle strette dal colossale guaio degli F-35. Al centro della contesa è finita una vicenda che sembrava ormai risolta, quella di questi aerei che la Svizzera ha ordinato negli Stati Uniti. A riaprire le danze è stata la questione del loro costo, il nostro Paese si è sempre detto certo di una cifra: sei miliardi di franchi per l’acquisto di questi aerei, considerati tra i più moderni al mondo. Dallo scorso mese di giugno sappiamo invece che per i 36 jet ordinati oltreoceano la fattura sarà di sicuro più salata, con stime che oscillano parecchio. La variante meno onerosa prevede un aumento di 650 milioni di franchi, lo scenario più doloroso indica costi supplementari che potrebbero raggiungere il miliardo e trecento milioni. Dipenderà in particolare dall’inflazione e dal costo delle materie prime. E c’è chi teme che possa dipendere anche dall’umore ballerino di Donald Trump. In ogni caso una cosa è certa: Berna si è sbagliata, e con Berna si intendono il Governo, il Parlamento e anche i vertici dell’esercito, che hanno sempre giocato la carta del prezzo fisso, relegando nel silenzio chi in questi anni aveva suonato il campanello d’allarme. Lo scorso mese di giugno dagli Stati Uniti è arrivata la doccia fredda, a detta di Washington il contratto prevede una fattura variabile e al rialzo. Punto e a capo. A poco sono valsi i negoziati che il neo-ministro della difesa Martin Pfister ha condotto con la controparte americana durante l’estate. «È così e dobbiamo accettarlo», ha fatto mestamente sapere il responsabile politico del nostro esercito.
Il tema ha investito anche il Parlamento e un primo dibattito era in programma mercoledì scorso al Consiglio degli Stati. Da discutere c’era una mozione della socialista solettese Franziska Roth, che chiedeva di sottoporre al voto popolare la nuova fattura, rivista e corretta dalle autorità a stelle e strisce. La discussione su questa mozione però non c’è stata, in attesa di un rapporto che il Dipartimento della difesa si è impegnato a presentare entro il prossimo mese di novembre. Un’analisi della situazione che dovrà servire da bussola per riuscire a calmare le acque attorno a questo contratto miliardario. Diverse le varianti finora emerse dal Consiglio federale e dai parlamentari che si occupano in modo specifico di sicurezza e esercito. La prima, difesa dallo stesso Martin Pfister, consiste nell’accettare il rincaro e nell’assicurarsi i nuovi velivoli, a partire dal 2027. «Dal punto di vista militare questo acquisto è assolutamente necessario», ha fatto notare il ministro della difesa. «Senza gli F-35 la Svizzera nei prossimi decenni non sarebbe in grado di difendere da sola il proprio spazio aereo». Una variante difesa dal fronte borghese e dai vertici dell’esercito ma su cui si innesta una rivendicazione della sinistra. Per il partito socialista e per i Verdi il credito aggiuntivo andrebbe sottoposto a referendum. Su questo argomento una votazione popolare c’è già stata cinque anni fa, il 27 settembre del 2020. Una chiamata alle urne che spaccò in due il nostro Paese e in cui l’acquisto di nuovi jet da combattimento fu deciso di strettissima misura, dal 50,1 % di chi votò quel giorno, con uno scarto a favore del sì di soli 8515 voti. Uno dei risultati più risicati nella storia della democrazia diretta elvetica. Ed è anche per questo che la sinistra mira ora a giocare di nuovo la carta del voto popolare, consapevole di quanto il consenso attorno a questo acquisto sia tutt’altro che granitico.
A dimostrare questa precarietà è giunto anche, la settimana scorsa, un sondaggio pubblicato dal quotidiano romando «Le Temps». Tra i dati che spiccano maggiormente quello che riguarda il prezzo d’acquisto, il cui aumento è considerato «inaccettabile» dal 67% degli intervistati. Mentre il 52% ritiene che sia opportuno ritirarsi dall’accordo sottoscritto con gli Stati uniti e rinunciare del tutto a questi nuovi caccia. E questa è anche una delle varianti emerse a livello politico, in particolare a sinistra, una sorta di ritorno alla casella di partenza per valutare anche altre opzioni e altri modelli, come i Rafale di fabbricazione francese o gli Eurofighter, prodotti in Germania. C’è poi anche una variante meno drastica che consiste nell’acquistare un numero ridotto di F-35, così da rimanere nel limite dei sei miliardi previsto finora, evitando così anche lo scoglio molto insidioso di una nuova votazione popolare. Un’ipotesi che lo stesso Martin Pfister ritiene plausibile, anche perché gli Stati Uniti si sono detti disposti ad accettare una soluzione di questo tipo. D’altronde l’F-35 è un modello estremamente gettonato, con ordinazioni che rischiano di superare le capacità di produzione della Lockheed Martin, l’azienda fornitrice con sede nel Maryland, tra i maggiori leader mondiali nel settore dell’aeronautica militare.
In ogni caso si tratterà di trovare una sorta di quadratura del cerchio, tra gli interessi delle nostre forze aeree e il rigore finanziario che la Confederazione è intenzionata a perseguire nei prossimi anni, per evitare cifre di bilancio in profondo rosso. A causa dell’aggressione all’Ucraina e della nuova situazione geo-politica in Europa, l’esercito ha ottenuto un aumento dei mezzi finanziari a sua disposizione, in tutto 30 miliardi di franchi fino al 2028, 4 miliardi in più del previsto. Ma gli ambiti di intervento sono parecchi, sul piatto della bilancia non ci sono soltanto i nuovi caccia F-35. La settimana scorsa se ne è avuto un esempio, sempre al Consiglio degli Stati, che non ha voluto dare il proprio nullaosta ad un miliardo di spese supplementari per l’acquisto di munizioni per gli arsenali della nostra contraerea. Anche il Nazionale aveva già bocciato questo credito, con uno sguardo rivolto proprio alle esigenze di bilancio. Il tema delle munizioni rimane comunque aperto, lo ha detto in aula Martin Pfister, facendo notare che le necessità dell’esercito in questo ambito ammontano a «diversi miliardi». Dal canto suo il capo dell’ufficio federale dell’armamento Urs Loher parla di una fattura di circa dieci miliardi di franchi, sempre per le munizioni. Cifre da capogiro che ci fanno capire quanto il futuro dell’esercito sia colmo di incognite. E di roventi sfide politiche all’orizzonte. Â