Un antidoto alla musica prefabbricata
Nell’ambito della scena del cosiddetto «alternative rock» angloamericano, sono in pochi a poter vantare l’alto profilo dei The National, formazione originaria di Cincinnati (Ohio), che da ben 25 anni si distingue per la costante raffinatezza e qualità del suo repertorio. Caratteristiche che sembrano estendersi anche al lavoro solista del frontman, il 54enne Matt Berninger, il quale, dopo l’eccellente esordio di Serpentine Prison (2020), torna oggi sulle scene con un secondo lavoro a proprio nome: Get Sunk, appena dato alle stampe dalla Concord Records.
Un album che, in effetti, riprende i temi da sempre cari all’artista, come, del resto, alla formazione da lui capitanata; su tutti, il più ricorrente resta quello della disillusione e perdita di fiducia nei confronti di qualsiasi possibilità di gratificazione emotiva – in altre parole, della lacerante consapevolezza di come l’esperienza del vivere da «adulti» possa essere sufficiente a spezzare qualsivoglia sogno giovanile. Un sentimento molto evidente fin dalla traccia d’apertura del CD, la sognante Inland Ocean – pezzo onirico ed evocativo che, insieme all’allusivo lento No Love, sembra ricordarci come la solitudine sia, infine, il destino ultimo di ognuno di noi.
Così, ecco che perfino un brano ritmato come il singolo apripista Bonnet of Pins appare pervaso da un senso palpabile di dolente malinconia e ineluttabile sconfitta; lo stesso che ricorre anche nel dolente recitativo di Nowhere Special e, soprattutto, nel cadenzato ottimismo di Frozen Oranges – racconto a tratti un po’ sconnesso di un surreale sabato trascorso in Indiana nel tentativo di sfuggire a pensieri apparentemente poco piacevoli. Del resto, nell’universo di Matt, perfino l’amore finisce per rappresentare poco più di un’illusione, destinata a infrangersi davanti alla dura realtà del vivere quotidiano: bastano infatti poche frasi strazianti («c’è un limite al dolore che puoi sopportare ogni giorno»), per fare della ballata Little by Little una perfetta allegoria dell’effetto destabilizzante che la continua mancanza di soddisfazioni può avere su un uomo non più giovane.
Eppure, allo stesso tempo, nel cantato disilluso di Berninger è possibile scorgere anche qualcos’altro: un anelito di speranza, una sorta di silenziosa, coraggiosa determinazione a mantenere una qualche forma di fiducia nella possibilità di un domani migliore, di un tempo in cui la sofferenza possa attenuarsi. Lo si avverte chiaramente negli incisi quasi baldanzosi del brano di chiusura, Times of Difficulty («quando guardi le stelle, vedi nulla? Somigliano forse a ciò che ti aspettavi?»).
E qui, in fondo, sta la grandezza compositiva di Matt – nel riuscire a combinare in modo magistrale le contrastanti sensazioni ed emozioni del cinquantenne medio: dalla disillusione e stanchezza che il tran-tran quotidiano spesso porta con sé, al dolore lancinante causato dalla fine di una relazione troppo a lungo favoleggiata, fino alla dolente rassegnazione di chi, sebbene ormai esausto, sa di non poter far altro che continuare a vivere, giorno dopo giorno. Un risultato senz’altro notevole in un momento in cui molta della musica quotidianamente propinata dalle stazioni radio suona come un prodotto asettico e «prefabbricato», disgiunto da qualsiasi autentico vissuto o sentimento umano; al punto che l’onesto, quasi lacerante intimismo di Berninger diventa una vera boccata d’aria fresca per chiunque ami quel buon cantautorato definibile come «provvisto di un’anima».
 
			         
			         
			        