«Quelli che quando perde l’Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio, e poi vanno a casa e picchiano i figli, oh yeah». È uno dei laconici versi del celeberrimo brano Quelli che partorito dalla geniale mente di Beppe Viola e magistralmente, ma anche tragicamente, portato in scena da Enzo Jannacci. Prendo lo spunto da un recente volantino distribuito alla Gottardo Arena dalla Gioventù Biancoblù, la corposa frangia calda dei tifosi dell’Ambrì Piotta. A scanso di equivoci e di anatemi, dico che ciò di cui scrivo riguarda tutte le tifoserie, tant’è vero che è in atto una collaborazione fra le varie curve, nel tentativo di risolvere alcune derive da loro considerate pericolose.
Il dito accusatore è puntato su una serie di «pensate» che, a detta loro, rischiano di creare disaffezione. Pensiamo al calendario, che propone turni suddivisi su 3 o 4 serate, con classifiche che fino all’ultimo non vedono mai le squadre con lo stesso numero di partite giocate. Un non addetto ai lavori potrebbe pensare, dove sta il problema? Sta nella regolarità sportiva dei vari tornei. Il sistema invita alle speculazioni. Amplifica il margine di discrezionalità di una singola squadra che si ritrova a poter decidere se perdere o vincere, a dipendenza della sua volontà di manipolare la classifica. Per sfavorire una determinata rivale ritenuta pericolosa. Per evitare di incrociare nella fase successiva avversari considerati più ostici di altri.
In fondo basterebbe che i dirigenti rinsavissero e tornassero al buon vecchio schema: si gioca tutti, martedì e sabato. Ma non è possibile inserire la retromarcia. Il pallino è ormai nelle mani delle TV a pagamento. Sono proprio loro, uno dei bersagli delle tifoserie organizzate. Le piattaforme televisive gonfiano il palinsesto. Propongono partite quasi ogni sera. Allargano il bacino d’utenza. Anche le società sportive ne traggono beneficio, quindi ne sono, almeno in parte, complici.
È un meccanismo che, a lungo andare, potrebbe trasferire sempre più spettatori dallo stadio al divano. In quest’ottica si aggiungono le altre rimostranze del tifo organizzato, a suo dire sempre più martoriato dalla mannaia della Lega Hockey. Quest’ultima da un lato ha inasprito i controlli d’identità, le diffide e le punizioni collettive, dall’altro ha ridotto la capienza del settore ospiti. Mi sorge spontanea l’idea che possa trattarsi di una strategia per contenere il tifo violento. Se così fosse non sarebbe meglio lavorare maggiormente sulla promozione dello sport e sull’educazione a un tifo sano? Lo so che si tratta di un ossimoro, ma ci siamo capiti, spero.
Torno alla premiata ditta Jannacci-Viola. Stiamo parlando di una partita di hockey, di calcio o di qualsiasi altro sport di squadra che implica amore per dei colori, per una bandiera, una maglia. Non stiamo discutendo della terza guerra mondiale, dei bombardamenti su Lugansk o delle incursioni nella Striscia di Gaza. Eppure ci si azzuffa, ci si azzanna, a volte ci si uccide. Per una maglia. Per un colore! Basta che il blu diventi nero ed ecco che un essere umano da amico si trasforma in nemico. Per restare nella metafora cromatica, la vedo grigia.
Se si vuole dare una chance di continuità all’appassionante relazione tra evento sportivo e pubblico, credo che tutti gli attori coinvolti debbano compiere sforzi e sacrifici. Anzitutto i tifosi si ricordino che la vittoria della squadra del cuore non regala loro un aumento di salario, un posto di lavoro, una casa, o altri benefici tangibili. Si limitassero ai geniali sfottò, mettendo al bando la violenza.
Lega e Società sportive si rendano però conto che senza il tifo, quello organizzato e quello spontaneo, un evento sportivo perde gran parte del suo fascino. I protagonisti giocano in campo, in pista, ma anche sulle tribune e in curva. Le sfide a porte chiuse durante il lockdown non ci hanno insegnato nulla? Le piattaforme televisive sono invece artefici, e al tempo stesso in balia, del loro destino. Il giorno in cui non ci sarà più latte da mungere, si ritroveranno a piangere su quello versato. La speranza è che quel giorno il meraviglioso giocattolo sia ancora funzionante e in perfetto stato. Non ne sono convinto, ma è doveroso sperare con ottimismo.