Qualche sgraffito a Cinuos-chel

by Claudia
29 Gennaio 2024

Le peccete a perdita d’occhio ricoperte di neve, dal treno, in Engadina, non smetteranno mai, ogni volta, d’incantarmi. Sulla strada innevata, poco dopo la chiesuola seicentesca che vale la pena buttarci un occhio per la sua sobrietà assoluta, spoglia di tutto, in cui risaltano le volte ogivali e si respira l’odore di cembro utilissimo all’anima, becco i delfini. Incontrati per la prima volta a pagina otto di Sgraffito im Engadin und Bergell (1977) di Iachen Ulrich Könz ed Eduard Widmer, dal vivo percorrono ora grotteschi, con la lingua fuori che diventa fiore o foglia, lungo un fregio, la facciata color tufo. La neve, alta oltre un metro, intorno, accresce la sensazione di fiabesco scaturita da questi delfini sgraffiati a fresco, dall’intonaco di calce, nel 1594. Le cui code formano gigli fiorentini.

L’arte dello sgraffito sboccia a Firenze nel Rinascimento per poi sparire, a differenza dell’Engadina – e sull’isola di Chios – dove attecchisce bene e si è tramandata fino ai nostri giorni. Sopravvissuti grazie «al clima oltremodo secco dell’Engadina» secondo Iachen Ulrich Könz, questi sgraffiti cinquecenteschi, oggi, ci sono anche grazie proprio a Iachen Ulrich Könz (1899-1980): personaggio seminale in questo ramo. Oltre che autore – assieme al fotografo Widmer noto forse a qualcuno per aver catturato con grazia l’architettura ottomana – del libro citato, è un architetto che ha restaurato lui stesso questi sgraffiti nel 1938. Nello stesso periodo restaura quelli di Guarda, assieme alle loro case, ed è il papà di Constant Könz, classe 1929, e Steivan Liun Könz (1940-1998): sgraffitisti ammirevoli che hanno contribuito a mantenere viva e propagare quest’arte da strada che mi ha stupito fin da bambino. Seppure di grande pregio, non sono questi «mostri marini» come li chiama più vagamente Erwin Poeschel in Die Kunstdenkmäler des Kantons Graubünden (1940), la ragione del mio viaggio a Cinuos-chel. Paesino dell’Alta Engadina dal nome non facilissimo da tenere a mente di centocinquanta anime sulla sponda sinistra dell’En. Dove, da casa Feltscher – dopo aver lanciato un ultimo sguardo a delfini, motivo delle onde, conchiglia di San Giacomo stilizzata sopra una finestra con la classica svasatura profonda engadinese, ritrovabile, intagliata, due volte, sulla porta enorme tipica a tutto sesto – credo di avvistare già la casa con gli sgraffiti in mente. A ventisette passi, vis-à-vis della fontana, di primo pomeriggio verso fine gennaio, sulla facciata di casa Capon, catturo le quattro sirene e i due draghi che cercavo. Risalenti al 1659, a milleseicentotredici metri sul livello del mare, giallo cenere su sfondo malta, questi graffiti sono più selvaggi dei precedenti. Le sirene bicaudate dal tratto infantile hanno i capelli come spaghetti e lo sguardo stralunato, tre senza pupille. Colpisce subito l’intreccio tra la coda del drago e una delle due code di una sirena. A fianco delle sei finestre in alto, con svasatura sgraffiata a trompe-l’oeil fregiata di stella dei venti, dodici vasi di fiori a sgraffito. Un mazzo di fiori ulteriori è in mano all’unica sirena non bicaudata, sdraiata in un angolo.

Spazzo la neve sulla panchina in faccia alla casa e a fianco della fontana, poso il rucksack, e mi siedo. «Non ci si stanca di studiare queste opere tappezzanti» osserva, nel suo libro Sgraffito (1928), Hans Urbach, un ingegnere berlinese a zonzo da queste parti. Per lo studio della simbologia della sirena bicaudata nota anche come melusina, spirito acquatico ambientato piuttosto bene nella regione e conosciuto nelle leggende grigionesi come la ritscha – incontrata, nelle nostre passeggiate, tempo fa a Valendas – stiamo qui fino a domani. Va almeno detto qualcosa a proposito del suo significato ambivalente di protezione e pericolo: non per niente tengono stretta, in mano, una coda da una parte e una dall’altra. Così come il sentimento dell’uomo, al contempo, è un misto di attrazione e repulsione, desiderio e paura, e così via. L’intrecciarsi, raro, con il drago che vive sulle nuvole e dorme in fondo ai laghi e il cui polisimbolismo richiederebbe pure ore, giorni, anni, vite intere, ne potenzia la forza. Lo scorrere dell’acqua della fontana, presenza-chiave ricorrente più volte in questi villaggi fatati, acuisce la ierofania rurale di draghi, capesante, delfini, sirene.