Uno strumento rivoluzionario

by Claudia
25 Ottobre 2021

Fotografia  -  Da imitatore della pittura, a registratore della realtà

L’avvento dell’elettronica, negli anni Sessanta del secolo scorso, ha comportato profondi cambiamenti in tutti gli ambiti della nostra realtà. Oltre che tecnologica, si è trattato di una vera e propria rivoluzione antropologica, capace di mutare in modo radicale comportamenti e percezioni, rapporti sociali, modi produttivi, sistemi culturali. E la fotografia non poteva sfuggire a tale trasformazione.
Con quest’articolo, il primo di una rubrica dedicata alla fotografia considerata perlopiù nei suoi aspetti pratici, vogliamo dapprima descrivere almeno in parte quali sono state le ripercussioni sulla pratica fotografica legate al passaggio dalla pellicola al digitale.
Va detto, per cominciare, che più di una trasformazione, questo passaggio rappresenta una discontinuità nella linea evolutiva vissuta dalla fotografia dai suoi albori, nel primo Ottocento, fino agli ultimi decenni del Novecento. Tale evoluzione rincorse il perfezionamento dei materiali (pellicole sempre più sensibili, sistemi ottici più efficienti e qualitativi) e delle apparecchiature impiegate. Col tempo, il miglioramento dei materiali permise l’introduzione di macchine fotografiche più piccole, più maneggevoli e facili da usare rispetto ai complicati e ingombranti apparecchi precedenti. L’industria si assunse il compito di produrre le pellicole e di sviluppare e stampare le immagini scattate da chi non aveva tempo, voglia o capacità di farlo da sé. Grazie a tutto ciò, fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento, sempre più persone cominciarono a fotografare.
L’evoluzione tecnologica e la massificazione dell’uso portarono cambiamenti nella pratica fotografica. Fino ad allora, la fotografia era appannaggio di un’élite di ricchi appassionati che la sperimentavano con spirito pioneristico e di ricerca, di artisti che la usavano per i loro studi preparatori, e di qualche professionista che ne aveva fatto il proprio mestiere. Si trattava soprattutto di un uso che prendeva a modello – e talvolta sostituiva – la pittura, ricalcandone i temi più diffusi: ritratti, paesaggi, nature morte. Le inquadrature e le messe in scena erano a lungo studiate. I canoni estetici si rifacevano a quelli dell’arte classica. E il culmine di questa prima fase della fotografia, proprio per questi motivi, venne poi definito pittorialismo. Gli esponenti di questo movimento – sia attraverso la composizione sia con un uso mirato di tecniche di ripresa e di stampa – producevano immagini che si volevano il più simile possibile a veri e propri quadri e disegni.
Va detto però che da subito la fotografia esercitò grande fascino principalmente per la sua capacità di rappresentare la realtà fin nei più piccoli dettagli. Furono solo i suoi limiti tecnici a restringere la scelta dei soggetti e dei campi di azione. Per fare un esempio, i tempi lunghi di esposizione impedirono per molti anni di cogliere sul vivo situazioni di vita quotidiana, di realizzare quelle che oggi chiamiamo istantanee. Superati quei limiti, si aprì un vasto campo di possibilità.
Fu a quel momento che la fotografia, iniziando il suo percorso di emancipazione dalla pittura, raggiunse la sua maggiore età. La macchina fotografica si staccò dal cavalletto e cominciò a esplorare tutti gli ambiti della vita. Divenne, ad esempio, uno strumento imprescindibile nella ricerca scientifica. Ma, soprattutto per le sue capacità di documentare la realtà, la fotografia trovò innumerevoli applicazioni nell’ambito sociale. Da un suo uso nel contesto familiare, a ricordo dei momenti forti e rituali che scandiscono i tempi della vita delle persone, a quello più sociale, giornalistico e politico, andando a registrare e testimoniando realtà che attraversano la società fin nelle sue parti più recondite.
Fu inoltre nei primi decenni del Novecento che si affermò come pratica artistica a sé stante, non più in competizione con la pittura, ma in quanto dotata di sue ben specifiche e distinte caratteristiche operative. Innumerevoli altri furono gli ambiti investiti da questo mezzo: industriale, commerciale, dello svago, dell’educazione, per dirne solo alcuni. Tutti trassero gran beneficio dal suo utilizzo.
Nei decenni successivi vi furono importanti sviluppi tecnologici. Ad esempio, dal 1907 con le autocromie dei fratelli Lumière, la fotografia a colori cominciò a essere alla portata di mano di molte più persone, che i metodi complessi, imprecisi e costosi, scoperti e utilizzati in precedenza non consentivano. Nel 1936 Agfa introdusse un procedimento a colori applicabile ai vari supporti fotografici: lastre, carte e pellicole, positive e negative. Andando così a incrementarne ulteriormente la diffusione.
Si svilupparono automatismi sempre più precisi ed efficaci, per l’esposizione delle pellicole, per la messa a fuoco. Motori di trascinamento, pellicole istantanee ad autosviluppo (la Polaroid fu la prima e la più famosa). Si moltiplicarono i formati disponibili, per ogni tasca e occasione. L’uso della fotografia divenne talmente popolare da diventare un vero e proprio affare miliardario, oltre ad essere vettore di un nuovo modo di vedere e interpretare il mondo. La realtà sociale tutt’intera venne invasa dalle immagini, tanto che si cominciò a parlare – a partire dagli anni Cinquanta – di «civiltà dell’immagine», grazie anche al ruolo importante che il cinema e la televisione stavano assumendo nella comunicazione di massa.
Sebbene tutti questi suoi indubbi progressi, possiamo però dire che in buona sostanza la fotografia – fino alla nascita del digitale – rimase legata alla modalità originaria di registrazione della realtà, cioè quella di essere una traccia fotochimica – e dunque in sé concreta – impressa dalla realtà in un breve lasso di tempo su una superficie fotosensibile. La fotografia poteva a giusto titolo dirsi testimone del mondo e dei suoi accadimenti.
L’arrivo del digitale e il suo progressivo sostituirsi alla pellicola modificò in modo radicale i presupposti iniziali della fotografia. Senza ricapitolarne la storia, vediamo in breve cosa comportò.
Innanzitutto, col digitale si perde quel legame immediato che congiungeva la realtà fotografata all’immagine prodotta. L’apparecchio digitale raccoglie, sì, l’informazione luminosa attraverso un dispositivo ottico in tutto e per tutto simile a quello utilizzato con la pellicola, ma per tradurlo poi in una sequenza precaria di numeri, virtuale, effimera, facilmente manipolabile. Non si tratta solo di un cambiamento di forma, ma propriamente di sostanza. Perso quel legame intimo, materiale, diretto con la realtà, va a perdersi anche il forte valore testimoniale che la fotografia aveva incarnato fino a quel momento. La facile manipolabilità delle immagini ottenute accentua ulteriormente questa perdita.
Potremmo quasi dire che, allontanandosi dalla sostanza della realtà, il digitale tenda a valorizzarne l’aspetto formale. In altre parole, da una fotografia attraversata da un forte spirito etico, col digitale si passa a una fotografia che valorizza il versante estetico. La rappresentazione della realtà lascia il posto all’immaginario, all’artefatto, al virtuale. Col tempo, gli interventi di alterazione delle immagini sono stati vieppiù recepiti come normali, quasi momento connaturato alla pratica fotografica: l’applicazione di filtri e di altre manipolazioni sulle immagini è ormai un fatto corrente, proposta persino in automatico da molti dei nuovi dispositivi fotografici di uso comune. Questa nuova modalità operativa fa sì che si passi da una situazione dove l’uomo agisce attraverso la macchina a una dove è la macchina ad avere il sopravvento nel determinare il risultato finale.
Da un approccio di stampo umanistico a uno improntato fortemente alla tecnica, al primato della macchina sull’uomo. Grazie alla tecnologia digitale, oggi si possono fare con facilità cose assolutamente impensabili prima, con la pellicola, ma andando a determinare un paradossale appiattimento di questo nostro nuovo orizzonte visivo. L’immagine si omologa alle capacità d’intervento tecnologico.
Della pellicola si faceva un uso parsimonioso. Vi era un tempo di latenza tra lo scatto e la sua fruizione attraverso una stampa, che ne impreziosiva il valore. La stampa veniva custodita e andava a costruire una sorta di archivio della storia, da quella piccola, individuale o familiare, a quella collettiva, con la esse maiuscola.
Oggi, quotidianamente vengono realizzati milioni di fotografie, molte delle quali non verranno mai guardate, se non fugacemente al momento dello scatto. Sarà allora ben difficile – se non impossibile – per uno storico riuscire a utilizzare efficacemente una tale mole d’informazioni.
Per la fotografia, il passaggio dalla pellicola al digitale è stato, oltre che fatale, probabilmente inevitabile, quasi tutta la nostra società ha subito questa trasformazione. Solo il tempo saprà dirci se ritroveremo la capacità, o le ragioni, di una sua rinascita.
E dunque? Dunque abbiamo pensato a questa rubrica per suggerire agli appassionati della fotografia amatoriale, qualche riflessione per rendere forse meno banali gli scatti che si fanno a volte senza davvero prestare attenzioni, anche minime, che potrebbero aumentare la resa dei ricordi, l’estetica dell’immagine, ma anche solo potenziarne il contenuto, tornando a dominare la macchina invece di farci dominare da essa.
Tra questi suggerimenti che vorremo sviluppare, vi sono temi classici da tornare a esplorare con uno sguardo più consapevole. Partendo dai primi rudimenti, come la conoscenza dell’esposizione attraverso i tre elementi fondamentali che costituiscono una macchina fotografica, che sono l’otturatore, il diaframma e la sensibilità, si vorrebbe parlare di luce, di bianco e nero o colore, di temi e soggetti, di narrazione delle immagini, di fotografia astratta, e tanto altro.