Viaggiatori d’Occidente - Nel Peloponneso sulle tracce di Patrick Leigh Fermor
«Un luogo morto, astrale, un habitat da draghi. L’abominio della desolazione». Così nel 1958 Patrick Leigh Fermor descriveva la penisola del Mani, nel sud della Grecia. I tre promontori del Peloponneso sono come dita allungate nel mare e Mani è quello centrale.
Patrick Leigh Fermor è uno dei più autorevoli viaggiatori e scrittori di viaggio inglesi; la sua penna è colta, puntuale, esaustiva, talvolta strabordante di informazioni e curiosità. Durante la Seconda guerra mondiale Fermor aveva combattuto in Grecia e partecipato a operazioni importanti, a cominciare dalla cattura del generale tedesco Heinrich Kreipe a Creta. In Grecia Fermor tornò più e più volte. Se ne innamorò al punto da trasferirsi proprio nel Mani, dove rimase per tutta la vita. Si costruì una casa a Kardamili, poco distante dal Taigeto, l’affilato massiccio montuoso che da Sparta si protende nel mare, verso sud, fino al punto in cui l’Egeo diventa Jonio. Qui c’è il capo Tenaro o Matapan, estrema propaggine del Mani, l’ingresso all’Ade della mitologia classica.
Un magnifico sentiero tocca le rovine di una villa romana e si inoltra sulla cresta calcarea e brulla del promontorio, in un orizzonte di vento e solitudine, fino al solitario faro. Verso ovest si scorge la penisola messenica dove si trovano le storiche cittadelle fortificate di Koroni e Methoni, gli «occhi» della Serenissima: appartennero a Venezia e sorvegliarono i traffici in questo importante braccio di mare. A est si spalanca il golfo di Laconia, che lascia a malapena scorgere la penisola di Capo Malea. Di fronte, verso sud, soltanto la linea dritta dell’orizzonte. Capo Matapan è il punto più meridionale dell’Europa continentale.
Ma è nell’entroterra che ancora oggi si ritrova l’atmosfera descritta da Fermor nel suo libro Mani. Viaggi nel Peloponneso (Adelphi). Qui il paesaggio è aspro, le montagne calcaree si alzano dal mare in versanti ripidi e inaccessibili, disseccati, con cupi valloni che diventano veri e propri canyon. Qualche rara mulattiera si inerpica verso l’alto. È tutto ciò che resta delle vie di comunicazione tra gli antichi villaggi manioti, quegli stessi villaggi che Fermor descrive nel resoconto del suo viaggio a piedi tra le montagne.
A motivare lo scrittore furono i racconti fantastici ascoltati in giro per la Grecia: storie ombrose, che parlavano di un popolo ostile e bellicoso, dedito a usanze barbare e avvezzo ai crimini più immondi. Incuriosito Fermor si procurò una guida e si mise in viaggio. Partito da Sparta, attraversò la medievale Mistrà e si arrampicò sul ripido sentiero verso le creste del Taigeto. Nel villaggio di Anavriti capì di essere davvero in una dimensione a parte, un mondo difficile da penetrare ma proprio per questo affascinante. Attraversò il Mani cosiddetto esterno o Exo Mani, storicamente parte della Messenia, e quello interno o Mesa Mani, parte della Laconia. Si fermò in centri grandi come Kardamili e Areopoli, ma anche in villaggi minuscoli come Galtes e Kambos, veri e propri grappoli di case e torri in pietra. Di questi luoghi Fermor annotò ogni dettaglio, riempì quaderni di appunti con dialoghi e incontri, magnifiche descrizioni di paesaggi, aspetti anche minimi di una cultura tramandata per secoli sino alle soglie della modernità. Raccolse molte storie di faide spietate tra clan capeggiati da briganti e pirati; descrisse i riti delle mirologistrias, donne esperte in mirologia, cioè le lamentazioni e i canti funebri tipici di questa terra rimasta isolata a lungo.
Questo angolo di Grecia è una fortezza naturale di impenetrabili montagne, il Taigeto raggiunge i 2400 metri di quota. Non a caso vi ripararono generazioni di fuggiaschi, spesso nobili decaduti che costruirono palazzetti fortificati e centinaia di torri. Il cristianesimo vi approdò soltanto nel IX secolo.
Oggi una strada tortuosa fa il giro della penisola: dalla città di Kalamata, nella parte messenica appartenente al comune di Dytiki Mani, si addentra nella parte laconica, cioè nella penisola vera e propria, interamente parte del comune di Anatoliki Mani; passa per Areopoli e prosegue giù fino al faro, per poi tornare verso nord fino a Gytheio. Lungo il percorso non si rischia più di imbattersi in una faida tra villaggi, ma a tratti si ha l’impressione che il tempo si sia fermato. Molti villaggi sono abbandonati. Alcuni gruppi di case turrite sono in via di recupero e forse diventeranno alloggi per turisti; il resto sta lentamente crollando. Il viaggiatore si ritrova a passeggiare tra case dirute e torri sbilenche, chiesette ormai prive di copertura, minuscole piazze in cui riecheggia la vita che vi passò, e quella di chi la vide passare.