Scrivere in tutti i colori

by Claudia
26 Giugno 2017

«La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa». È un pensiero della scrittrice americana Flannery O’Connor che si trova in esergo a un libro molto ricco, interessante, utile: Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore, scritto da Hans Tuzzi e pubblicato da Bollati Boringhieri (5½). Il titolo trae in inganno, perché in realtà il colore non c’entra niente (ecco spiegato il mezzo voto d’aria in meno). Non è un vademecum e (per fortuna) non pretende di sostituire un corso di scrittura. È semplicemente un libro sulla letteratura vista e raccontata da chi la fa, non da chi la vuole analizzare. Tuzzi è infatti, oltre che un conoscitore della storia del libro, un ottimo autore di romanzi gialli, tra i migliori che ci siano in Italia (il commissario Norberto Melis è un suo famoso protagonista seriale).
In questo saggio sui generis, diviso in dieci capitoli, Tuzzi mette a frutto anche la sua passione di lettore onnivoro di classici e non solo. Niente regole e precetti (nonostante il titolo), perché «chi sente il bisogno di un prontuario cui attenersi, è meglio che lasci perdere: la letteratura non è un compitino». L’esperienza di Tuzzi ci guida nello scrivere romanzi attraverso quel che hanno detto, del loro lavoro, gli autori: dunque non meravigliatevi se questa rubrica (come il libro di Tuzzi) è un collage di belle frasi sulla letteratura pronunciate (o scritte) da grandi scrittori. Già il capitolo iniziale, «Prima di scrivere», ci mette su questa strada: «In letteratura è come in teologia: valgono le sole domande. O meglio: è l’intelligenza delle domande che costringe a elaborare risposte all’altezza». Tuzzi utilizza tutto il suo sapere. Cita Agostino sul tempo, essendo la letteratura una questione di tempo: «Se nessuno mi chiede cos’è, lo so; se devo spiegarlo a chi lo chiede, non lo so più». E Kafka: «Scrivere significa aprirsi a dismisura; perciò uno che sta scrivendo non sarà mai solo abbastanza, e mentre si scrive non ci sarà mai silenzio abbastanza intorno a lui, e la notte non sarà mai notte abbastanza». Tempo della vita (le letture che abbiamo fatto), tempo del lavoro e tempo della narrazione (epico, storico, autobiografico…).
Il secondo capitolo, dedicato allo stile e alla struttura, è il capitolo-chiave. E comincia con questa frase di Cyril Connolly, il critico e scrittore che fu compagno di scuola di Orwell: «Meglio scrivere per se stessi e non avere pubblico che scrivere per il pubblico e non avere se stessi». Per chi si scrive?, è una domanda non oziosa, equivale più o meno a: perché si scrive. «Se scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro»: è la bellissima considerazione di Cristina Campo. Attenzione, avverte Tuzzi: la struttura non è la trama e lo stile non è il ritmo. In Flaubert può cambiare il ritmo di romanzo in romanzo, ma lo stile è sempre quello, un timbro inconfondibile. Il suo. La letteratura consiste nello stile e «l’assenza di stile si riconosce alla prima pagina», come sostiene Breton. Lo stile non è il bello scrivere né, per usare un’espressione di Proust, il tentativo goffo di evitare «la triste poltiglia dei che». L’ipotesi di Tuzzi è affascinante: «lo stile sta tutto tra ciò che intendo dire e i mezzi di cui dispongo per dirlo». Ogni scrittore deve crearsi una sua lingua come un violinista il proprio suono. Per Proust i libri sono come getti artesiani: «si alzano solamente all’altezza pari alla profondità a cui sono scesi». Lo stile richiede rigore e regole. Prima avvertenza: diffidare del proprio (presunto) talento. Tra le schede autobiografiche scritte da allievi di una famosa scuola di scrittura, Tuzzi è andato a scovare questa: «CL è nato il 26 agosto 1971. Da quel giorno soffre di vertigini ma non smette di volare». Talento letterario? No, slogan di autopromozione di bassa lega. Detto ciò, non bisogna trascurare il lettore: la letteratura è anche un’arte di seduzione. L’incipit deve agganciare, anche quando non ha funambolismi: «Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve».
Un altro capitolo-chiave è il quarto: «Dire, non dire, da chi farlo dire». Una questione di voce. «Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973». Chi parla? La vittima di un serial killer in Amabili resti di Alice Sebold. Ci vuole un bel coraggio a far parlare un morto per un intero romanzo. Si rischia il fallimento. L’uso della polifonia può aiutare, ma bisogna chiamarsi Faulkner per scrivere Mentre morivo, dove i punti di vista e le voci narranti sono molteplici e i personaggi prendono forma grazie a ciò che ne dicono gli altri. Risultato: un capolavoro sulla polvere, cioè sulla morte, cioè sulla vita. Poco (o niente) a che vedere con il giallo dei giallisti.