Manca una vite. Vedi un buco filettato proprio sopra il corpo del motore e pensi: la vite c’era o non c’era? A cosa serve? Non ci avevi mai fatto caso, possibile? E che parte del motore è? Non ne hai idea perché è di quelle che ancora non si sono guastate. Si romperà mentre viaggi? Cerchi una foto in rete e per un momento consideri l’ipotesi di mandare un amico da un concessionario per vedere se la vite c’è o non c’è. Intanto la Royal Enfield corre sulle strade infinitamente dritte del Kazakhstan. Corre, si fa per dire: la velocità di crociera è intorno ai 90 km/h e la velocità massima raggiunta restano i 115 km/h (anche se il contachilometri segna 160 km/h sfarfallando amabilmente).
La Royal Enfield è una moto particolare, progettata quasi cent’anni or sono in Inghilterra. Dopo il fallimento della casa madre nel 1971, la produzione è continuata in India, dov’era stata apprezzata in età coloniale. La moto è rimasta praticamente immutata nel tempo, a parte l’adeguamento alle leggi anti-inquinamento, e quindi il resto ce lo devi mettere tu: ansie comprese.
Viaggiare da soli in moto per settemila chilometri è una scoperta, di se stessi oltre che del mondo. Dal-l’Italia al Kirghizistan, passando per Slovenia, Ungheria, Ucraina, Russia e Kazakhstan. Ti ritrovi lungo la M32, dalla Russia ad Almaty, ad attraversare la steppa fra cavalli che corrono, cammelli che dondolano, mucche che pascolano e aquile che troppo spesso si fanno investire dai tir. La moto scivola, il sole picchia e le distanze si fanno sentire; questa non è l’Europa dove ogni cinquanta chilometri trovi una città o quantomeno un borgo. Qui corri per ore da solo. Giorno dopo giorno percepisci la stanchezza in modo silenzioso.
Il corpo ti richiama: la schiena, che tutti pensano sia sotto stress in moto, in realtà è sempre in esercizio e quindi sta bene; il collo invece patisce il vento che soffia orizzontale dalla pianura del Lago d’Aral; la mano destra, che stringe ininterrottamente la manopola dell’acceleratore sugli sterrati del Charyn Canyon, fa male. Chi l’avrebbe detto. Ogni tanto piccoli crampi al polpaccio. Occorre aver cura di sé: a letto presto, la sera cena leggera, acqua e sali minerali durante il giorno.
E poi ti sorprendi dei tuoi pensieri. Dopo tre o quattro giorni dalla partenza, sulle strade malconce dell’Ucraina, fra Kiev e la piccola Baturyn, già gloriosa capitale dei cosacchi, sei tutto concentrato sull’essenziale: la moto (motore, gomme e benzina), la strada, il meteo, la forma fisica, l’attenzione dopo molte ore alla guida.
Google Maps diventa l’interlocutore privilegiato, fin troppo. Ma la sua utilità è impagabile. Le mappe di carta, sempre presenti, sono ben conservate nelle borse della moto e finiranno il viaggio intonse. Un viaggio così, con questi tempi (quaranta giorni in tutto, compresi altri settemila chilometri al ritorno, ma questa volta in coppia con una disegnatrice; su www.azione.ch, altre immagini), era impensabile cinque anni fa se non per i super esperti. Oggi è alla portata di (quasi) tutti, grazie alla tecnologia di un semplice smartphone. Non sai il russo? Google Translator ha l’opzione «conversazione» e oltretutto regala molti momenti di ilarità, per esempio al mercato di Karakol, mentre cerchi di comprendere la ricetta dell’Ashlan Fu, piatto nazionale kirghizo. Non trovi un hotel sulla strada? Booking non ti abbandona nemmeno per il last minute e ormai ti porta in appartamenti, case private, luoghi che non troveresti mai su una guida, come l’ambigua casa-albergo tutta specchi e pelle di leopardo in un quartierino residenziale di Voronez, Russia. Non c’è campo? Scarichi le mappe e le usi offline, lo smartphone non perde mai il collegamento al satellite.
Tutto il romanticismo del viaggio lo riservi alla moto, completamente analogica.
Risolti i problemi logistici non ti resta che farti ossessionare dalla meccanica (e magari goderti il viaggio). Le statistiche, per esempio. Un mezzo ad alta tecnologia ti mostra tutti i dati su un display in tempo reale. Con una moto storica devi contare a mente a ripetizione, dividendo i tempi per le distanze, moltiplicando per i consumi, calcolando i litri, il costo e la differenza fra uno Stato e l’altro, poi di nuovo ipotizzare il consumo delle gomme sullo sterrato, l’usura dei freni e della frizione sul misto. Soprattutto c’è la catena: i motociclisti esperti l’hanno in duplice copia nel fondo della valigia e sanno già quando andrà cambiata. Intanto quella in servizio va pulita ogni giorno con il giusto solvente e magari uno spazzolino, prima di una spruzzata di grasso. Quando, tornato a casa, vedi uno spazzolino da denti e pensi immediatamente alla catena della moto, è tempo di prendersi una pausa oppure – viceversa – significa che sei pronto a ripartire.
Ma per fortuna i solitari non sono mai soli. C’è Koya, cacciatore di boa giapponese che pedala in Kirghizistan; dal lago Ysykköl, lasciate alle spalle le iurte e le Montagne celesti che segnano il confine con la Cina, punta a Bishkek, la capitale. E c’è Vladimir, ucraino, che invece sta scendendo a sud per il Kazakhstan, da Aqtöbe verso Turkistan, con una bici da città; dorme nella sua tenda, si lava nelle pozze d’acqua, scalda il cibo bruciando sterco di cammello. Di colpo, parlando con lui, tutto sembra più semplice e le paranoie da motociclista svaniscono. Resta una sola domanda che ti accompagna fino a casa: quella vite, c’era o non c’era?