Gujarat, Ahmedabad, la torre dello Jain Temple

Il paradiso dei vegetariani?

Viaggiatori d’Occidente - Nello Stato indiano del Gujarat il consumo di carne è vietato per legge
/ 13.03.2017
di Marco Moretti, testo e foto

Dopo settimane di cibo vegetariano, intravedo un guizzo nel canale e chiedo dove si può mangiare del pesce. La mia domanda crea imbarazzo, risolto da un pellegrino che compra un dolce di riso, latte e zucchero, lo riduce in palline e lo sparge in acqua. Qui gli uomini non mangiano i pesci, li nutrono. 

Siamo a Dwarka, la cittadina sulla costa del Gujarat dove il mito indù vuole sia vissuto Krishna, il dio dalla pelle azzurra, volato qui con le sue seimila mogli da Mathura, la sua città natale in Uttar Pradesh. La saga ha trasformato Dwarka nella meta di pellegrinaggio d’ogni buon indù.

A Dwarka, nella montagna jainista di Palitana, a Somnath e in altre cittadine sacre sparse nella penisola del Saurashtra, il consumo di carne e uova è vietato da leggi comunali, mentre la macellazione dei bovini è punita da leggi statali.

Per storia e cultura, il Gujarat è percepito come lo Stato più vegetariano dell’India, scrigno dei valori indù. Qui, a Porbandar, nacque il Mahatma Gandhi, il profeta della non violenza che nel suo percorso di verità e rinuncia fu un vegetariano rigoroso: «La grandezza d’una nazione e il suo progresso morale possono essere valutati dal modo in cui vengono trattati i suoi animali». Su questi principi ad Ahmedabad, la più popolosa città dello Stato, Gandhi fondò il suo ashram. Per avere minor impatto sulla natura, Gandhi eliminò anche i latticini dalla sua dieta. Ma quest’ultima è una scelta vegana estranea ai costumi indù: infatti il latte è legato al mito della creazione ed è prasad, cibo sacro.

Il vegetarianesimo indù (come quello buddhista e jainista) nasce dall’estensione della compassione al mondo animale. In India essere vegetariani non è una scelta. Ogni indù (l’80 per cento della popolazione) mangia solo quello che deve mangiare. Norme e divieti alimentari lo accompagnano fin dalla nascita. Se diventa vegetariano è perché è nato in una famiglia con analoghi principi. Sono i paria (gli intoccabili) e le altre basse caste a macellare, vendere e consumare carne (ovini e pollame). I bramini, al vertice della piramide castale, s’astengono anche dalla vista e dal contatto con la carne, considerata frutto di sofferenza e fonte d’impurità. Ci sono vegetariani ortodossi anche tra le caste medio basse, come artigiani e agricoltori.

I Veda, le scritture sacre induiste, pongono la vacca al vertice del mondo animale, in quanto dea-madre, «colei che nutre il mondo» e simbolo della vita. Mangiare la sua carne è un sacrilegio. I bovini sono parte della famiglia indù: nelle feste vengono adornati con stendardi e ghirlande di fiori, e la nascita d’un vitello è celebrata con offerte agli dei, invocati anche per evitare che gli animali s’ammalino. In Gujarat le vacche anziane o malate sono ospitate in ricoveri governativi e privati, questi ultimi finanziati dalle offerte dei fedeli: si trovano coloratissimi donation box sui ghat (le scale usate per le abluzioni), nei templi e alle casse dei ristoranti. Lo stesso Gandhi individuava nella protezione della vacca una delle più alte affermazioni di civiltà: «Porta l’essere umano oltre i limiti della sua specie, afferma l’identità dell’uomo con tutto ciò che vive».

Il mondo contadino dà anche una spiegazione razionale alla sacralità bovina. Oggi le campagne del Gujarat sono piene di trattori, ma per millenni la mucca è stata il fulcro dell’economia rurale. I bovini aravano i campi e trasportavano il raccolto, erano la fonte sicura di latte per nutrire i bambini. Erano considerati la principale ricchezza e la loro morte era l’inizio della rovina. Se durante una carestia li si doveva macellare, si mangiava subito ma non si aveva futuro. Dunque era quasi meglio perdere un parente di stenti che abbattere l’animale che garantiva l’avvenire del clan. Ancora oggi ogni famiglia contadina ha una coppia di bovini.

Il vegetarianesimo rigoroso di questa terra origina dall’ahimsa, l’assenza di male e di violenza, è il principio portante della morale indù: un concetto che affonda le radici nel periodo buddista, dal III secolo a.C. al IV secolo d.C., e diventa disciplina totale con l’affermarsi del jainismo, una fede nata duemila anni or sono dal disgusto per il mondo materiale. 

Il jainismo impone il totale rispetto per la vita e ha influenzato il Gujarat più d’ogni altro Stato indiano. Vegetariani intransigenti, i jainisti s’astengono dall’uccidere qualsiasi essere vivente: coprono la bocca con una mascherina per non ammazzare i microrganismi e spazzano il selciato con uno scopino per non schiacciare gli insetti. Mangiano solo vegetali di cui si può cogliere il frutto senza far morire la pianta, dunque nessuna radice. Non lavorano i campi per non ferire i vermi con la vanga, una scelta che li ha trasformati in una setta elitaria, specializzata in commercio e artigianato: per esempio sono i più rinomati tagliatori di diamanti. Il loro luogo di riferimento è il monte di Palitana, dove tremilatrecento gradini portano a un dedalo di cesellate colonne in marmo e pietra arenaria, a centinaia di cappelle che racchiudono sculture di divinità nude. 

Al di là della percezione, secondo il Registrar General of India, nel 2014 in Gujarat i vegetariani erano il 61,8 per cento della popolazione (al nord e al confine col Pakistan gli abitanti sono in gran parte musulmani e dunque carnivori) contro la media nazionale del 28,85 per cento.

Ma – come ha evidenziato una recente inchiesta di «The Times of India» – oggi il Gujarat ha meno vegetariani dei vicini Rajahstan e Maharastra, anche a causa del boom economico che negli ultimi venti anni ha secolarizzato parte delle nuove generazioni nelle grandi città. 

Nel mio prossimo viaggio, forse, potrò finalmente mangiare pesce…